X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Summer in the city (VII): Toni e Julieta a Berlino

Pubblicato il 28 agosto 2016 da Matteo Galli


Summer in the city (VII): Toni e Julieta a Berlino

Abbiamo visto a Berlino due film di Cannes, di cui ha già parlato Fabiana Sargentini su Close-Up, e i cui giudizi sostanzialmente condividiamo. Uno è già circolato in Italia, Julieta di Pedro Almodovar e l’altro per il quale – stando alla rete –al momento non è prevista distribuzione italiana, Toni Erdmann di Maren Ade, che molti critici avevano indicato come il film candidato numero uno alla Palma D’Oro, ma che se ne è andato da Cannes a mani vuote, salvo il peraltro prestigioso premio FIPRESCI. Julieta lo abbiamo visto agli "Hackesche Höfe", i più famosi e nel frattempo turistici fra quegli edifici berlinesi, quelle strutture complesse, per lo più costruite a fine Ottocento, in stile Sezession o Jugendstil, che illustrano quando di meglio l’architettura dell’epoca avesse da offrire, in cui si susseguono numerosi cortili, in questo caso nove. Il cinema è nel primo cortile, quello più vicino alla strada, ed è al terzo piano, una caratteristica, questa, di molti cinema berlinesi: dallo “Sputnik”, quarto piano e terzo cortile, già menzionato, fino allo “Eiszeit” in piena Kreuzberg, terzo piano e terzo cortile, adesso quasi inaccessibile perché in tutti i cortili stanno facendo dei lavori, fino ad arrivare al “Moviemento”, il cinema un tempo gestito da Tom Tykwer, anch’esso al secondo piano, sul Kottbusser Damm, in piena “Kreuzkölln”, la zona al confine fra Kreuzberg e Neukölln, un cinema che nella propria homepage segnala di essere il cinema più vecchio della Germania, essendo stato fondato nel 1907. Sarà vero? Toni Erdmann lo abbiamo visto nel sontuoso “International” sulla Karl-Marx-Allee, un tempo denominata Stalinallee, il grande viale di rappresentanza della vecchia Berlino Est, la cui architettura classicista-socialista risulta, a nostro modesto avviso, a distanza di cinquant’anni assai più umana e semplicemente più bella di tanta coeva e celebratissima architettura sperimentale di Berlino Ovest, come, ad esempio, lo Hansa-Viertel con le case di Le Corbusier e di Alvar Aalto. All’ “International”, inaugurato nel 1963, venivano programmate fino alla caduta del muro le grandi prime del cinema della DEFA. Oggi appartiene al principale gruppo di esercenti berlinesi, la “Yorckfilmgruppe” che controlla decine di sale, e durante la Berlinale è qui che vengono programmate le prime della sezione “Panorama”. Vorremmo tornare brevemente su Toni Erdmann, rimandando al pezzo di Fabiana Sargentini per il racconto della trama. Toni Erdmann è un film atipico per il cinema tedesco attuale e proprio per questo motivo di difficile distribuzione fuori dalla Germania e segnatamente in Italia, dove, come si è avuto più volte occasione di affermare, il cinema tedesco funziona quasi esclusivamente nella misura in cui negozia il passato. È sì una storia familiare ma dove, per paradossale che possa sembrare, la storia, l’eziologia dei rapporti familiari è completamente assente. Non si capisce, si può solo intuire, come la protagonista sia potuta diventare così e anche come il padre sia potuto diventare così, quali influssi Ines abbia subito dal padre o anche dalla madre, con la quale in seguito alla separazione potrebbe aver convissuto, immaginiamo ma non lo sappiamo. Questo rifiuto sistematico di una certa psicologia elementare (e televisiva), il trionfo della fenomenologia fa di questo film della regista quarantenne Maren Ade - giunta in tredici anni, solamente al terzo film (!), l’ultimo risaliva al 2009, si intitolava Alle Anderen (Tutti gli altri) ed era passato alla Berlinale di quell’anno raccogliendo il Gran Premio della Giuria e l’Orso d’Argento per Birgit Minichmayr, senza ovviamente mai arrivare in Italia – un esempio molto convincente (di quel che resta) del principale movimento cinematografico autoriale tedesco degli ultimi quindici anni, la cosiddetta “Berliner Schule”, la scuola di Berlino. E infatti, scorrendo i titoli di coda, alla voce “Dramaturgische Beratung” (“consulenza drammaturgica”), troviamo almeno tre registi della “Berliner Schule” (Henner Winckler, Ulrich Köhler, Valeska Grisebach, solo quest’ultima distribuita in Italia, a fine stagione, col film Desiderio, ma anche lei in più di dieci anni ha girato solo tre film, film complessi certo, ma forse difficile anche trovare i soldi per farli…), quasi che Toni Erdmann fosse un’opera collettiva. In realtà non lo è affatto perché ritroviamo in questo film quello stesso disagio relazionale, quella continua provocazione sia paradigmatica (la singola sequenza) che sintagmatica (da una sequenza all’altra) rivolta allo spettatore che c’era anche in Alle Anderen: dopo una sequenza lo spettatore non sa mai cosa aspettarsi nella successiva, senza che però si giunga mai alle sequenze auto-conclusive del cinema modernista. Un disagio che non dà appigli consolatori: nessun personaggio in fondo ci piace davvero, ci deve piacere davvero: il padre Winfried, alias Toni Erdmann, certamente è il meno peggio rispetto a questa manica di manager insopportabili, fra i quali la figlia, ma la regista non vuole che nemmeno lui in fondo ci piaccia del tutto, giocando oltre ogni dire sulla figura retorica dell’iperbole.
L’originalità di Maren Ade e del suo tragicomico film magari qua e là un po’ troppo lungo (162 minuti) spicca ancor più a fronte del film di Almodovar, un film, come si diceva una volta, ben confezionato, al quale di originale è rimasto forse soltanto l’abbigliamento con quei colori così sgargianti, per il resto, rispetto ai primi film di Pedro, Julieta appare affetto da una notevole dose di manierismo.


Enregistrer au format PDF