TERRA PROMESSA

Per noi che lo vediamo soltanto in televisione, il Medio Oriente è solo il teatro di una faida sanguinosa e infinita tra israeliani e palestinesi, tra raid da una parte e attentati kamikaze dall’altra, stessi visi distrutti dal dolore dai due lati di un Muro in costruzione. Non immaginiamo che nei paesi in guerra imperi la malavita organizzata e nemmeno che qualcuno possa considerarli la Terra Promessa dove trovare lavoro, proprio come accade in Europa, in Italia. Anche Israele, invece, è la meta della tratta delle schiave del nuovo millennio, prostitute venute dall’Europa dell’Est, che sperano di fare le cameriere o in due anni di attività di guadagnare abbastanza da essere libere e tornare a casa. Per arrivare a destinazione, sono i beduini del deserto, come i misteriosi predoni delle antiche favole, a trasportarle clandestinamente attraverso il confine ma allo stesso tempo, in uno spettrale bivacco in un luogo sospeso nello spazio e nel tempo, a sancire con lo stupro la loro definitiva trasformazione in merce, semplici pezzi di carne. È solo l’inizio di una discesa agli inferi di passaggi di mano in mano, compresa una vera e propria vendita all’asta delle ragazze, in fretta, di notte, con una torcia danzante che nel buio rivela i corpi nudi delle vittime e i volti impassibili dei loro compratori. Gitai sembra avere scelto la via del reportage di denuncia, con tutti i difetti di stampo televisivo che comporta, ma giustificato dall’argomento, con il risultato che la prima parte del film appare asciutta, nervosa, diretta, essenziale. Perché decidere allora di deviare e finire nella palude di facili simbolismi, e, peggio, inutili personaggi? Dal monologo della maîtresse Schygulla, fantasma dell’icona che fu, al coro delle fanciulle biancovestite, tra cui la prostituta Hanna, nella chiesa ortodossa che cantano la prosperità della Gerusalemme della Bibbia, passando per lo spettro dell’Olocausto nelle docce sui corpi nudi e scheletrici alla Schiele, il film si perde irrimediabilmente. Diventa oscuro e confuso come la misteriosa ragazza inglese che si infiltra tra le prostitute (una turista un po’ troppo curiosa? la donna di uno dei loro aguzzini?) e le immagini sporche e ondeggianti si rivelano null’altro che un dogmatismo di maniera (nel senso del DOGMA). Amos Gitai è una presenza fissa nei festival: essendo piuttosto prolifico, almeno uno all’anno dei maggiori non glielo toglie nessuno. Non sono molti i registi israeliani affermati in circolazione, e sorge quindi il dubbio che questa costante frequentazione sia dovuta a motivi di politically correct. Confidiamo in un ritorno alle sue capacità, mostrate in tanti altri film, o quantomeno che ci sia qualcuno ad ereditarne la fiaccola, ad esempio Ronit e Schlomi Elkabetz, salutati da dieci minuti di applausi e da tanta commozione per il loro piccolo ma intenso Ve lakachta kecha isha (E prenderai moglie).
[settembre 2004]
Regia: Amos Gitai Sceneggiatura: Amos Gitai, Marie-José Sanselme Fotografia: Caroline Champetier Montaggio: Isabelle Ingold Musica: Ärvo Part Interpreti: Rosamund Pike, Diana Bespenchi, Anne Parillaud, Hanna Schygulla Produzione: Agar Hafakot, Recorded Picture Company Origine: Israele Durata: 90’
