The Act of Killing
Se si pensa di aver visto tutto, cinematograficamente parlando, e se si ritiene che i documentari siano didascalici, poco appassionanti e incapaci di un linguaggio estetico originale, allora è proprio il caso di vedere The Act of Killing. Non stupisce che, dopo aver visto il premontato, Werner Herzog sia stato talmente entusiasta del lavoro da volerne essere il produttore esecutivo.
Una citazione di Voltaire appare sui titoli di testa: “E’ vietato uccidere. Percio’ tutti gli assassini vengono puniti a meno che non uccidano in massa e al suono delle trombe”.
Quanto spesso la storia interroga le vittime? Molto, e giustamente, e così i documentari, che ricorrono quasi sempre alla voce dei sopravvissuti alle tragedie, le guerre, gli stermini i genocidi. Quando si ha l’occasione di sentire le voci dei carnefici? Quasi mai, dato che sono stati puniti, o sono nascosti, o non hanno interesse a parlare. Tranne quando sono ancora al potere e sono praticamente delle star, come accade ancora oggi nella corrotta e spaventosa dittatura indonesiana: il regista Joshua Oppenheimer a lungo ha cercato di intervistare parenti e sopravvissuti del genocidio di comunisti, veri o presunti, seguito alla presa di potere dei militari nel 1965, ma veniva regolarmente arrestato e i suoi testimoni finivano seriamente nei guai. Allora si è accorto che i carnefici non solo erano liberi, ricchi e potenti, ma che avevano anche una gran voglia di raccontare orgogliosamente le loro gesta: in particolare dei personaggi ai margini, gansgster si chiamano e li chiamano (anzi rivendicano fieramente che il significato della parola è free men), cresciuti nel mito del cinema americano, che si vestivano come De Niro e Al Pacino, che sentivano Elvis, danzavano sognando i musical hollywoodiani, e ancora a passo di danza e canticchiando attraversavano la strada per andare a massacrare centinaia di migliaia di persone senza rimorso. In particolare uno dei più efferati è Anwar Congo, oggi un anziano ed elegante signore, ancora molto amante del mito cinematografico, tanto che il regista fa a lui e altri suoi ex collaboratori una proposta singolare, ovvero mettere in scena come se fossero un film, le violenze sanguinarie da loro perpetrate. Ed è qui che il documentario (definizione peraltro riduttiva) assume un tono che va oltre il grottesco e l’incredibile, perchè i free men prendono il loro compito incredibilmente sul serio e la loro ricostruzione, con tanto di troupe, truccatori, accuratissime scelte sul vestiario e gli accessori, diviene sempre più veritiera e agghiacciante, tanto che una spaventosa scena di strangolamento viene improvvisamente interrotta come niente fosse dalla preghiera chiamata dal muezzin.
Deliranti intermezzi musical, con tanto di ballerine e uno dei gangster truccato come una spaventosa drag queen, si alternano alle scene di ricostruzione della verità che hanno il loro culmine nella riproduzione della distruzione di un villaggio, incredibilmente autentica e spaventosa, malgrado lo spettatore veda la troupe dei gangster e sappia che la troupe di Oppenheimer sta filmando contemporaneamente. Subito prima delle riprese vediamo infatti gli esponenti della sanguinaria guardia paramilitare Gioventù Pancasila (nata dagli squadroni della morte che collaborarono al colpo di stato militare, che conta tra i suoi membri anche il vice presidente del paese, orgogliosamente in visita sul set) vantarsi di stragi, omicidi, stupri di bambine. A riprese finite, una donna svenuta non riesce a rialzarsi e le bambine non riescono a smettere di piangere.
Oppenheimer, che ha lavorato a questo progetto per sette anni, non si accontenta solo di un primo livello cinematografico, ma sottopone il materiale realizzato alla visione dei suoi autori/protagonisti, filmando le loro reazioni, di solito di grande soddisfazione, o di disappunto per qualche dettaglio non riuscito, qualche errore di recitazione. Nessuno di loro pensa alle conseguenze di quello che ha fatto dal punto di vista morale, umano, legale. Una delle comparse racconta tra le lacrime la storia della tragica uccisione di suo padre quando era bambino, precisando di “non voler criticare, ma solo di voler fornire materiale per la sceneggiatura”, ma il racconto viene accolto con la più totale indifferenza, per consolarlo, comunque gli viene detto che “può essere usato per motivare gli attori”. Cosa attendersi di peggio? Addirittura una scena di musical in cui i carnefici compaiono come religiosi e le vittime, con tanto di corde al collo, li ringraziano per averli mandati in paradiso.
Solo Anwar, che decide di interpretare nel loro film una delle vittime, ha qualcosa come uno scatto di coscienza, credendo di aver potuto finalmente capire che cosa hanno provato le persone da lui uccise, dando voce ai fantasmi che, si scopre, lo tormentano ogni notte. Ma di fatto confondendo ormai definitivamente la realtà con la finzione.
(The Act of Killing) Regia: Joshua Oppenheimer; co-regia: Christine Cynn; fotografia: Carlos Arango de Montis, Lars Skree; montaggio: Niels Pagh Andersen, Janus Billeskov Jansen, Mariko Montpetit, Ariadna Fatjo-Vilas Mestre, Charlotte Munch Bengtsen, Erik Andersson; produzione: Final Cut for Real Aps; origine: Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna; durata: 120’.