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There is no evil - Berlino 2020

Pubblicato il 29 febbraio 2020 da Matteo Galli

VOTO:

There is no evil - Berlino 2020

Il concorso della Berlinale 2020 si conclude col botto, con un film che potrebbe mettere d’accordo tutti, aggiudicandosi l’Orso d’Oro. Il film è intitolato There is no evil, diretto dal regista iraniano Mohammad Rasoulof, giunto al settimo lungometraggio nell’arco di una ventina d’anni. Il film ha un unico paradossale difetto che potrebbe penalizzarlo per l’ottenimento del massimo riconoscimento: il regista non ha il permesso di girare, gli è stato ritirato il passaporto e quindi non ha potuto presenziare alla prima berlinese, col che, premiandolo, verrebbe a configurarsi una costellazione identica a quella capitata a Jafar Panahi, esattamente cinque anni fa, quando vinse l’Orso d’Oro per così dire in contumacia, dopo essere stato, sempre in contumacia, presidente di Giuria. Con la differenza che Taxi Teheran era un buon film e il premio, per carità legittimo, parve prima di ogni altra cosa un gesto politico, in questo caso sarebbe un premio a un film importante, con una sceneggiatura eccellente, costruito ottimamente e altrettanto ottimamente recitato.

Il film è diviso in un prologo e tre episodi. Il prologo descrive la giornata tipo di una perfetta famiglia borghese, con quello stile meravigliosamente realistico ma mai banale che contraddistingue alla stregua di un patrimonio genetico, intergenerazionale, la quasi totalità del cinema iraniano: il padre Heshmat esce dal lavoro, dopo aver caricato in macchina e poi scaricato un sacco contenente la razione di riso a lui spettante, torna a casa, si cambia d’abito, libera il gattino dei vicini che si è incastrato accanto alla caldaia condominiale al piano interrato, va a prelevare la moglie insegnante, va a ritirare lo stipendio in banca, ritira da scuola anche la figlia, va insieme a loro a fare la spesona settimanale al supermercato, a trovare la mamma/nonna malata, amorevolmente accudendola, va a mangiare la pizza con moglie e figlia. Poi, unico segnale disturbante, prende delle pastiglie e finisce a letto addormentandosi all’istante. La sveglia, del resto, sarà alle 3 del mattino. La giornata ricomincia. Doccia, neanche il tempo di far colazione, prende la macchina, Teheran piovosa, uggiosa, si apre un cancello automatico, s’intuisce che Heshmat lavora in un carcere. Inizia il turno di lavoro, si prepara finalmente la colazione, ma la colazione deve, seppur brevemente attendere, perché si accendono delle spie rosse che poi diventano verdi. Heshmat deve solo premere un bottone. La macchina da presa inquadra piedi ciondolanti. E così veniamo a sapere che, con la più grande nonchalance, Heshmat di mestiere fa il boia. Heshmat svolge con compunzione e senso del dovere il proprio mestiere, Heshmat obbedisce. E sulla dicotomia obbedienza/disobbedienza vertono i tre episodi successivi, l’ultimo dei quali riguarda – a occhio e croce una ventina d’anni dopo – lo stesso personaggio del primo episodio, o comunque un personaggio che ha compiuto un gesto analogo a quello compiuto vent’anni prima, nei credits, in realtà, i nomi dei personaggi sono diversi.

Nel primo episodio (Lei disse: “Ce la farai”) il protagonista Pouya, un soldato di leva, addetto materialmente alla squadra che si occupa di esecuzioni capitali e incaricato di togliere lo sgabello da sotto i piedi ai condannati all’impiccagione, si ribella e rifiuta di compiere il gesto, rischiando la pelle, ma alla fine ottenendo il risultato auspicato di non macchiarsi di quel delitto e quindi fuggendo con la propria ragazza che l’aspetta fuori del medesimo carcere che avevamo visto nel prologo (era stata forse lei a pronunciare le parole di cui al titolo?). I due felici si allontanano accompagnati dalle note di Bella Ciao cantata da Milva, canzone di opposizione in tutto il Medio Oriente.

Nel secondo episodio, il più drammatico e forse il più bello (Compleanno), il protagonista, Javad, anch’egli soldato di leva, ha compiuto la scelta opposta, quell’ordine l’ha eseguito e per premio ha ricevuto una licenza nel corso della quale va a trovare la sua ragazza che con tutta la famiglia vive in una casa di montagna, in atteggiamento di aperta resilienza al potere, peccato che la festa di compleanno - che avrebbe dovuto coincidere con l’ufficializzazione della proposta di matrimonio - si trasformerà in qualcosa di profondamente altro (che non riveleremo, il film uscirà in Italia per la Satine Film), provocando una serie di reazioni a catena e di shock sia in lui che nella fidanzata Nana. Anche in questo episodio non un dettaglio fuori posto, non una parola in più.

Il terzo e ultimo episodio (Baciami), a cui invece un taglietto di cinque-dieci minuti non sarebbe guastato, è anch’esso ambientato in una zona semi-desertica, dove vive una coppia isolata dal mondo, senza telefono e senza internet: lui fa il medico e l’apicultore insieme alla sua (nuova) compagna di qualche anno più giovane. Scopriremo che non ha molto tempo davanti a sé perché presenta tutti i sintomi di un tumore al polmone. L’episodio è incentrato sulla visita della nipote proveniente dalla Germania. Fin dall’inizio – in mezzo alle molte telefonate che la ragazza fa al padre in Germania e al suo stupore rispetto a un mondo che fa fatica a comprendere – capiamo che c’è una rivelazione importante che ci attende, che la ragazza è stata convocata appositamente in Iran proprio per venire a sapere qualcosa di cui era all’oscuro. Lo spettatore intuisce abbastanza presto che tipo di rivelazione possa essere e intuisce anche quale sarà la reazione della ragazza, interpretata dalla figlia del regista, essa stessa cresciuta in Germania (ad Amburgo, il film è stato anche cofinanziato da film commission tedesche) e che in questo film negozia, almeno in parte, le vicende famigliari. E anche qui si parla di obbedienza/disobbedienza alla legge: legge morale vs legge dello Stato, trascendendo il caso specifico iraniano e assurgendo a questioni di valenza transnazionale e sovratemporale. Quando ai produttori, in conferenza stampa, è stato chiesto di dire qualcosa di più in merito alla logistica delle riprese, la risposta è stata comprensibilmente laconica, tenendo conto, lo ribadiamo, che Rasoulof tecnicamente avrebbe il divieto di girare, pur non essendo agli arresti domiciliari. Appare, al momento, improbabile che il film possa essere distribuito nelle sale iraniane, troppo scomode sono le questioni che affronta, troppe sono le infrazioni alla politica restrittiva e censoria delle autorità locali. Eppure si tratta di un film eccellente, nient’affatto manicheo e fazioso, ma delicatissimo nel porre questioni etiche di straordinario spessore.


CAST & CREDITS

(Sheytan vojud nadarad); Regia: Mohammad Rasoulof; sceneggiatura: Mohammad Rasoulof; fotografia: Ashkan Ashkani; montaggio: Mohammadreza Muini, Meysam Muini; interpreti: Ehsan Mirhosseini (Heshmat), Shaghayegh Shourian (Razieh ), Kaveh Ahangar (Pouya), Mahtab Servati (Nana), Mohammad Valizadegan (Javad), Mohammad Seddighimehr (Bahram), Baran Rasoulof (Darya); produzione: Cosmopol Film, Europa Media Nest, Filmiran; origine: Iran-Germania-Repubblica Ceca, 2020; durata: 150’


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