Tutti gli uomini del re

Tratto dal romanzo di Robert Penn Warren, da cui nel ’43 era già stato tratto un film diretto da Robert Rossen, il film racconta l’ascesa al potere del governatore Willie Stark (Sean Penn), e la parallela vicenda umana del giornalista Jake Burden (Jude Law). Al servizio di Stark, che si rivela man mano individuo corrotto e feroce, Burden si ritrova in un crescendo di violenza, all’apice del quale sarà costretto ad affrontare sé stesso e il proprio passato. Steven Zaillian racconta una duplice parabola; la struttura “a forbice” si regge interamente sull’analisi dei due protagonisti e sulle dinamiche del rapporto tra Stark/Penn e Burden/Law. Stark ci viene presentato all’inizio del film come un onesto attivista e venditore a domicilio nella Louisiana degli anni ’30. Appassionato, idealista, in un primo dialogo con Burden dice “Io credo nel popolo”. Nella prima parte del film sembra un utopico self-made man del sogno americano, il lustrascarpe che riuscirà a diventare Presidente. E’ facile capire che il film va in tutt’altra direzione. Burden è invece più smaliziato, e guarda con sufficienza e scetticismo lo sbracciato idealismo di Stark. Dopo questa presentazione iniziale, quando Burden comincia a lavorare per Stark, la caratterizzazione di entrambi si fa più complessa. Stark si rivela un individuo assetato di potere, che per conservare ciò che si è guadagnato non esita ad usare minacce e ricatti. Dal canto suo, Burden si confronta con il proprio passato, con i propri sogni giovanili e con le persone che lo amavano, costringendosi così a infrangere l’apatico cinismo cui si è condannato. Del film è interessante una certa ambiguità nell’analisi dei personaggi, specialmente di Stark: non è dato sapere se nella sua strada verso il potere egli perde di vista i suoi obiettivi più nobili, diventando così un uomo corrotto affamato di gloria, o se è semplicemente un ipocrita, che da sempre ha come solo obiettivo il raggiungimento del potere. Quello che è sicuro è che man mano il personaggio cessa di avere una caratterizzazione individuale, diventando piuttosto un simbolo. Non conosciamo i suoi pensieri, e osserviamo complesse incoerenze tra gesti e azioni. Riecheggia, nella sua caratterizzazione composita, su cui lo spettatore è costretto a sospendere il giudizio (morale), qualcosa dei ritratti a mosaico di Rosi (Lucky Luciano, Salvatore Giuliano, …). La vera natura del personaggio resta avvolta nel mistero. Talvolta il punto di vista del racconto sembra prendere le sue parti (come nell’uso trionfalistico della musica durante i suoi primi discorsi), altre volte invece lo presenta come un villain tradizionale. Anche quando la caratterizzazione del personaggio è più chiara, resta la complessità del punto di vista a caratterizzare stilisticamente il racconto di Stark. Egli è una (dis)incarnazione del potere, protagonista occulto che agisce attraverso gli altri per raggiungere i propri scopi.
Burden è invece un osservatore silenzioso. Se il personaggio di Stark ci viene raccontato per gesti e azioni, per Burden si sceglie la strada dell’approfondimento psicologico. Protagoniste diventano le sue passioni e la sua vicenda intima, raccontate dai suoi monologhi interiori (a tratti forse piuttosto didascalici). Si struttura così il dilemma di Burden, costretto a scegliere tra la sua vita di ora al servizio di Stark e del potere, e la sua vita precedente rappresentata dai suoi antichi affetti. E’ proprio qui che il film appare irrisolto. Entriamo nei meandri della psicologia di Burden e ci immedesimiamo nella sua lotta interiore; ma poi, anche quando le cose peggiorano drasticamente, Burden resta passivo, e rimane sempre osservatore anche della propria vita. L’individualità di Burden appare così schiacciata dal peso degli eventi, e la sua analisi rimane poco più di un abbozzo o di una promessa non mantenuta. Questo squilibrio appare come un problema non di poco conto per un film che si è voluto spartire tra due protagonisti.
Più interessante del dilemma di Burden (la scelta tra il passato ed il presente, tra il sé di allora e il sé di adesso), è probabilmente la problematica sul rapporto tra fini e mezzi. Se la tesi di fondo del film è che il potere è comunque sporco, e l’ascesa dell’uomo verso di esso corrisponde simmetricamente alla sua perdita di moralità, la questione è: fino a che punto è lecito appoggiarsi al potere per raggiungere il proprio fine, anche se onesto? Non esistono infatti personaggi semplicemente “buoni”. Anche quelli che sembrano più monodimensionali (la Winslet, il grande amore di Burden, Hopkins, il giudice, e il dottore interpretato da Mark Ruffalo) compiono azioni dubbie, “immorali”, una volta a contatto con il potere. Come se questo infettasse per contagio, e Stark (che sostiene che “il bene te lo devi inventare strada facendo”, e che “si può sempre cavare il bene dal male”) non fosse altro che il focolaio violento di un’epidemia.
[Dicembre 2006]
(All the king’s men) Regia e sceneggiatura: Steven Zaillian; fotografia: Pawel Edelman; montaggio: Wayne Wahrman; musica: James Horner; interpreti: Sean Penn (Willie Stark), Jude Law (Jack Burden), Anthony Hopkins (Giudice Irwin), Kate Winslet (Anne Stanton), Mark Ruffalo (Adam Stanton), Patricia Clarkson (Sadie Burke), James Gandolfini (Tiny Duffy); produzione: Columbia Pictures Corporation, Phoenix Pictures; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: Stati Uniti; durata: 125’; web info: Sito ufficiale
