U-CARMEN EKAHYELITSHA

Sarebbe facile, ora che sappiamo che si è aggiudicato nientemeno che l’Orso d’oro, fare i facili profeti e dire che si tratta di un capolavoro. Ebbene non lo è, anzi si tratta del classico film che ci si dimentica di recensire, in una Berlinale di per sé non indimenticabile. U-Carmen Ekahyelitsha è l’ennesima versione di un’opera straconosciuta come la Carmen di Bizet, che si distingue dalle altre solo per l’ambientazione in una baraccopoli sudafricana e per il fatto che il libretto è stato doverosamente tradotto in lingua xhosa: aspetti di per sé positivi ma non sufficienti a creare un effetto di straniamento brechtiano o qualunque altra cosa fosse nelle intenzioni del britannico Marc Dornford-May, autore di varie messe in scene teatrali di opere, tra cui ovviamente questa. La stampa tedesca, per contro, irrimediabilmente attratta da tutto ciò che è esotico, è stata subito conquistata dal film e, in particolare, dalle sue prosperose (sic!) protagoniste dai visi intensi e dalle voci stupende, inguainate in coloratissimi vestiti. Basta questo per esaltarsi per un film il cui aggettivo più calzante, nel migliore dei casi, sembra essere simpatico e, nel peggiore, noioso? In realtà sorge spontaneo il sospetto che si fosse reso ormai necessario, date le premesse, premiare uno dei tre film sull’Africa del quale il direttore della Berlinale andava tanto fiero. Nell’impossibilità di dare un riconoscimento a Man to man di Wargnier, pena la rivolta popolare, sembrava favorito il dolente e verboso Sometimes in april di Raoul Peck, ma evidentemente non ci si voleva rattristare con la tragedia del genocidio in Ruanda, mentre la storia senza tempo della bella sigaraia offre una pacifica soluzione diplomatica. La rivisitazione di opere musicali del passato di per sé non è assolutamente un crimine, come dimostato dai film di Baz Luhrmann. U-Carmen Ekahyelitsha, però, non è né teatro filmato, né si prende la briga di inventarsi un linguaggio cinematografico che possa corrispondere a quello musicale, o emanciparsi da esso in nome di una rivoluzionaria post-modernità. Né, sinceramente, possiamo sentirci di considerarlo un film politico, solo perché i soldati spagnoli di un tempo sono diventati piccoli criminali gangsta da favelas. Possiamo solo consigliarlo ai patiti dell’opera che, alla ricerca delle “chicche” da collezione, non vogliono perdersi la versione xhosa dell’aria del Toreador.
[febbraio 2005]
regia: Mark Dornford-May sceneggiatura: Mark Dornford-May, Charles Hazlewood, Andiswa Kedama, Pauline Malefane, dall’opera “Carmen” diGeorges Bizet fotografia: Giulio Biccari montaggio: Ronelle Loots musica: Charles Hazlewood interpreti: Pauline Malefane, Andile Tschoni, Zeilungile Sidloyi, Lungelwa Blou produzione: Spier Films durata: 120’ origine: Repubblica Sudafricana, 2004
