Under electric clouds - Concorso
Molti personaggi per altrettanti capitoli scanditi da titoletti non sempre pertinenti (Malick docet), un profluvuio di immagini spesso di grande bellezza e di imponente grandiosità, dialoghi non sempre adatti e/o interessanti, un enorme struttura di ferro, ultimo trend in fatto di architettura contemporanea ma già antica nel suo abbandono, alla cui ombra tutti i personaggi sono destinati alla fine ad incontrarsi.
“Ambizioso” è di certo l’aggettivo che viene subito alla mente nell’assistere ai 130 minuti di Under electric clouds di Alexey German Jr, figlio di Alexey German sr il cui capolavoro Hard to be a god (visto postumo alla Festa del Cinema di Roma 2013) ne dura ben 170 e ha avuto una gestazione di anni. Alexey il giovane raccoglie la lezione paterna in materia di regia ma confida un po’ troppo nella sua capacità visionaria e nella pazienza dello spettatore, bombardato di immagini, di personaggi, di dialoghi spesso ripetitivi e pleonastici, che nulla aggiungono alla vicenda, che anzi avrebbe bisogno invece di un po’ di sottrazione.
Nel rappresentare la realtà storica contemporanea, il cinema russo degli ultimi anni lavora evidentemente moltissimo sulla metafora, con risultati tanto meno riusciti, quanto più carica le tinte quando invece la realtà è già sufficientemente spaventosa di per sé. È il caso del terrificante Cargo 200 di Balabanov che nel 2007 tolse il sonno agli spettatori della Mostra del Cinema di Venezia, mentre il recente e bellissimo Leviathan di Zvyagintsev dimostra la possibilità di fare del cinema di impegno e di denuncia con grande lirismo e soprattutto con una solida sceneggiatura e personaggi molto ben caratterizzati.
Metafore cadono come gocce di pioggia durante un temporale dalle electric clouds del film: la grande struttura di metallo, allo stesso tempo modernissima e già arcaica, sogno di un architetto idealista che si dà fuoco davanti al fallimento, è palesemente la Grande Madre Russia Post Sovietica circondata dai suoi figli disperati, intellettuali autodistruttivi, artisti falliti, criminali travestiti da mecenati e giovani drogati allo sbando pronti a vendersi la sorellina per salvarsi la vita come in una versione punk de I demoni. E poi enormi statue di Lenin su cui una giovane priva di udito fa le capriole, un enorme cavallo di ferro che la stessa si trascina dietro nel finale insieme alla rediviva bambina di dostoevskiana memoria, che (tanto per essere chiari) dice: “ora voglio cominciare una nuova vita”.
Come se non bastasse, il Tempo la fa da padrone, tornando in sogno al 1991, oscillando tra il tempo recente e puntando poi al 2017, centenario della Rivoluzione d’Ottobre, scenario apocalittico in cui si profila una nuova guerra mondiale, dove domina una babele linguistica di incomunicabilità, dove l’homo homini lupus pugnala il suo simile ma la scintilla di speranza è un clandestino muto che accompagna la vittima nella morte con la sua pietà.
(Pod electricheskimi oblakami); Regia e sceneggiatura: Alexey German Jr.; fotografia: Evgeniy Privin, Sergey Mikhalchuk; montaggio: Sergey Ivanov; musica: Andrey Surotdinov; interpreti: Louis Franck (Petr), Merab Ninidze (Nikolay), Viktoriya Korotkova (Sasha), Chulpan Khamatova (Valya), Viktor Bugakov (Danya), Karim Pakachakov (Karim), Konstantin Zeliger (Marat), Anastasiya Melnikova (Irina); produzione: Metrafilms; origine: Federazione Russa/Ucraina/Polonia, 2015; durata: 130’