VENEZIA 59 - Public toilet

Messe subito in soffitta le frignature dogmatiche di Soderbergh, il film-mondo di Fruit Chan (Durian Durian, Made in Hong Kong) riversa sulla Mostra tutto il suo carico di novità, sperimentalità, freschezza. Di grande tenuta nell’arco complessivo, con alcune blandizie riscattate da scene di immediata, originale bellezza ed energia, si tratta di un film prima di tutto interessante. Lo è perché si incarica di rompere una certa quiescenza del racconto digitale puntellando argomenti grandi seppure trattati con ironia sbarazzina, un dono di scoiattolo per un regista che parla la lingua franca del cinema honkongese indipendente. Un tentativo pieno di far decollare una forma di racconto ancora legata all’occasionalità, all’incelofanatura del cadavere cinema, una via possibile almeno - restando in ambito festivaliero - per vedere simili opere concorrere nella selezione ufficiale anziché nel filone dei controcorrente. Il pasticciaccio globale di Public Toilet scorre nei torrenti dell’urina e svetta dai monti di pasta fecale, metaforicamente. Le latrine pubbliche rappresentano infatti il centro di tutti i luoghi del film, collage di situazioni che si svolgono a Pechino, a Time Square, al Colosseo, sul Ghange, sulla costa koreana. Dio delle latrine è il protagonista, Dong Dong, un ragazzo nato in un bagno pubblico e cresciuto da una donna anziana malata che lui cerca di salvare mettendosi in cerca di un rimedio. Stesso destino degli altri protagonisti i quali corrono il mondo in cerca di una salvazione per i loro cari, viaggio che li farà finire affratellati in una bellissima chiusa catartica. Varrà la pena anche di tornare su questo film, nei gangli della sua religione dell’umanità e scoprire con maggiore chiarezza il funzionamento del suo piano mitico che spicca, ora con superficialità ora con profondo senso ironico, nel nesso vita/morte infertilito di simpatia, facilità, puzzo e sconcerto. Quanto al suo sviluppo esterno ci troviamo di fronte a una riconsiderazione realistica nient’affatto prona al casualismo della telecamerina. Le realtà e le ambientazioni di Public Toilet hanno un punto di vista genuinamente ipocrita, nella sua accezione strettamente filologica di visione dal basso di marca saviniana al quale si può rubare anche forma dell’informe per quello sguardo non trascuratamente ideologizzato ma passionalmente vivo, intriso di vitalità e intelligenza che si respira in questo curioso film. Come sincerissimo è il racconto del gruppo di ragazzi che regalano un nuovo bel capitolo al genere chiuso con una dedica acerba e toccante. Il mondo è noia è deve essere ripercorso sempre in modo nuovo: la sirena che approda sul molo di una palafitta-bar, ama ma è allergica al mondo e così fa ritorno all’acqua lasciando, come l’uomo di fumo, solo gli stivaletti. Così, l’indiano che guida uno dei ragazzi, spalanca le porte della fine del mondo che è uno schermo sul quale viene proiettato un musical bollywood, avvertendolo che gli uomini si servono ancora di questo spettacolo. In quel luogo la videocamera guarda in faccia con un pp la potenza di un proiettore Photophone in azione come se stesse guardando una Bismark in disarmo ancora forte della sua enorme elica.
[Agosto 2002]
regia: Fruit Chan, interpreti: Tsuyoshi Abe, Ma Zhe, Jang Hyuk, Kim Yanghee, origine: Hong Kong - Korea, durata: 102’
