X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Venezia 64 - Karoy - Settimana della Critica

Pubblicato il 7 settembre 2007 da Alessia Spagnoli


Venezia 64 - Karoy - Settimana della Critica

In alcune società contemporanee, conchiuse in angoli sperduti del mondo, pare non possa o non debba proprio esserci alcuna possibilità di scelta per i propri abitanti. Il bel film kazako dell’esordiente regista Zhanna Issabaeva racconta vicende umane dolorosissime, crudeli perfino, in cui l’atrocità del tono è segnata da una violenza che è insieme concreta e intangibile, un destino ineffabile che opprime spietatamente le vite delle persone, come il cielo che schiaccia la terra nei suggestivi, eppure ostili, fondali naturali del Kazakhstan, splendidamente fotografati in Karoy. L’ex repubblica sovietica, dimenticata dal mondo, sta vivendo cinematograficamente una stagione, all’opposto, di rinascita, una vera e propria fase di “Nouvelle Vague”, come sostiene Fabio Ferzetti nella poche parole introduttive alla proiezione del film, presentato nella Settimana della Critica.
Nella prima parte del lungometraggio, la regista mostra il suo protagonista macchiarsi di una serie di azioni non solo moralmente basse, ma addirittura agghiaccianti. Ciò avviene fin dall’inizio della pellicola, in cui assistiamo al suo gettar discredito sulla reputazione di una giovane donna, e questa sola diceria vale a far picchiare a sangue l’incolpevole ragazza dal suo promesso sposo. Dalle parole di quest’ultimo apprendiamo come in Kazakhstan esista una forma di “stupro legalizzato”, per cui il futuro marito di una ragazza vergine può “appurare” la sua illibatezza ricorrendo alla violenza fisica. E già solo da questa prim(itiv)a scoperta, nasce il brivido che accompagna l’intera visione del film.
In seguito vediamo il protagonista Azat (uno straordinario Yerzhan Tusupov: il suo, sì, che è un ruolo difficile!) derubare senza alcun rimorso l’anziana nonna del frutto del poco, sudato guadagno ottenuto nel suo povero commercio o privare un bambino del cavallino, mezzo di trasporto imprescindibile in quegli aspri scenari. Giunge perfino a stuprare una donna, non solo incinta, ma addirittura partoriente: e questa sequenza è una delle più violente e insostenibili mai contenute in un film, probabilmente.
Di fronte agli atti di questo “campione” di crudeltà inaudite, non può non scattare che repulsione e condanna. Poi, però, l’uomo torna nella sua casa natale. E qui scopriamo che per i suoi due bambini è un padre affettuoso, nonché un figlio amorevole per la madre moribonda. Tanto premuroso da esaudire la sua ultima, ancora una volta atroce, volontà.
La Issabaeva non aiuta il pubblico a superare il disagio per questo scarto incomprensibile agli occhi di uno spettatore occidentale: non fornisce appigli o giustificazioni di sorta per simili incongruenze comportamentali. Come si può comprendere, seppur lontanamente, come si possa mostrare per un simile soggetto sentimenti come l’umana comprensione o addirittura il compatimento? E, in quanto donna, non possiamo ritenere che la cineasta voglia o possa perdonare chiunque commetta uno stupro (e uno stupro del genere!) L’intento pare essere tutt’altro: la donna vuol rappresentare, attraverso la vicenda privata del suo personaggio centrale, la storia del paese intero. Ella elegge a suo protagonista un uomo, relegando le varie donne al ruolo invariabile di vittime degli uomini. E, se le donne non possono che essere vittime, ella si interroga allora sul perché di questa violenza senza fine che le riguarda: e, per far questo, punta l’attenzione su ciò che ne è degli uomini, nel paese kazako. Parla di luoghi in cui, uomini o donne, si è ugualmente condannati a esistenze disperate, in cui non c’è limite al carico di sofferenze che ciascuno deve portare su di sé, poiché è la violenza della società stessa che appare inaudita.
Al di là dello shock di molte scene presenti nel film, ve n’è una, solo all’apparenza più pacificata e, proprio per questo più atroce, che mostra come ogni utopica speranza in un futuro migliore non possa applicarsi ai poverissimi abitanti delle montagne kazake: il padre di famiglia sta cucendo la cartella danneggiata della figliola maggiore, mentre questa e il figlio più piccolo fanno i compiti. L’illusione in una possibilità di riscatto sociale e morale tramite lo studio, si esplicita in questa immagine dolorosa.

La Issabaeva è una cineasta giovane, piacente (la si direbbe un’attrice) e questo Karoy rappresenta il suo primo, interessante lungometraggio: girare film nel suo paese non dev’essere impresa da poco, ma confidiamo che l’invito ad uno dei principali festival cinematografici del mondo possa, per così dire, “mettere in discesa” la sua carriera. Questo poiché riteniamo che il cinema del terzo millennio debba necessariamente aprirsi anche e soprattutto alle ultime “città proibite” ancora rimaste sul globo, e che ogni parola nuova detta su mondi sconosciuti o dimenticati, contribuisca ad alimentare la sua importanza e la sua magia. Qui ci viene mostrato cosa sia un vero kazako: Borat, insomma, visto da quaggiù, sembra un alieno.


CAST & CREDITS

(Karoy) Regia: Zhanna Issabayeva; interpreti: Yerzhan Tusupov, Rimkesh Omarkhanova, Aiman Aimagambetova, Kadirbek Demesin, Gulnazid Omarova; produzione: Sun Production, WorkStation Production House; origine: Kazakhstan 2007; durata: 93’


Enregistrer au format PDF