Venezia 70 - Considerazioni finali
Si è chiusa con un colpo di scena la settantesima edizione del Festival di Venezia: il leone d’oro torna in Italia dopo i 15 anni trascorsi da Così ridevano di Gianni Amelio. E non solo a vincere è un italiano – Gianfranco Rosi con il suo Sacro Gra – ma per la prima volta il leone viene assegnato ad un’opera di non fiction, ad un documentario.
Il premio, consegnato dal presidente della giuria Bernardo Bertolucci, è di quelli che dividono: in molti criticano la scelta della giuria – composta, oltre che dal regista di Novecento, da Andrea Arnold, Ryuichi Sakamoto, Carrie Fisher, Renato Berta, Martina Gedeck, Jiang Wen, Pablo Larraìn, Virginie Ledoyen - sostenendo che Sacro Gra non meritava tanto onore e suggerendo che forse il presidente ha voluto stupire e restare negli annali come colui che ha fatto tornare il massimo premio veneziano in patria.
Le illazioni su una giuria divisa sono alimentate dall’assenza di Carrie Fisher alla premiazione ed alla conferenza stampa finale, ma soprattutto dal fatto che, come l’anno scorso con The Master, il vincitore morale sembrerebbe essere quello che porta a casa più di un premio importante: leone d’argento e coppa Volpi alla miglior interpretazione maschile. Ovvero Miss Violence del greco Alexandros Avranas.
Opera durissima, di estrema perfezione formale, Miss Violence è la storia di una famiglia terribile, in cui con sapienza il regista accumula un’angoscia crescente attraverso indizi ed atmosfere per poi torturare lo spettatore con un piano sequenza tremendo ed impietoso che svela l’entità della tragedia che si sta consumando in una famiglia greca dall’apparenza normale. Ed infatti lo stesso leone d’argento ha diviso il pubblico e la stampa: da una parte chi lo ha amato incondizionatamente e dall’altra chi non ha accettato che l’orrore venisse mostrato in maniera così diretta. Critica prevedibile ma che non sembra molto ponderata nel paese che ha dato i natali a Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il gran premio della giuria va a Stray Dogs del maestro cinese Tsai Ming-Liang (che come Hayao Miyazaki annuncia il suo ritiro), affresco dell’alienazione e dell’isolamento degli ultimi nella scala sociale – una famiglia di senza tetto - nelle metropoli cinesi sempre più occidentalizzate. Un film accessibile solo ai più cinefili, che sfida lo spettatore con la sua assenza di struttura narrativa ed interminabili piani sequenza in cui accadono azioni minime. E tuttavia un film che, per chi saprà restare a guardarlo, regala momenti di grande poesia per immagini.
Ad eccezione di questi picchi, il Festival del 2013 resta però segnato da una medietà generalizzata: di molti film, come Parkland di Peter Landesman o Tracks di John Curran, non si capisce neanche l’inserimento in concorso. Né si capisce come altri ne siano stati esclusi: il quarto capitolo della saga di Heimatdel tedesco Edgar Reitz, se inserito in competizione, avrebbe forse lasciato pochi dubbi su chi premiare.
Scontato il premio Mastroianni per attori emergenti al bravissimo Tye Sheridan, interprete di Joe di David Gordon Green. Meno scontata ma meritata la Coppa volpi femminile a Elena Cotta per Via Castellana Bandiera di Emma Dante: in molti avrebbero scommesso che il premio sarebbe andato alla grande Judi Dench per Philomena - il film che ha riscosso più successo di pubblico e critica ma a cui è andato solo il premio Osella per la sceneggiatura – ma certo la grande attrice inglese ha meno bisogno di riconoscimenti ed è giusto premiare anche chi si trova a dover competere con i giganti. Così pareva anche che Scott Haze, protagonista di Child of God di James Franco, fosse il candidato più indicato per la Coppa Volpi, nonostante l’indiscussa bravura di Themis Panou: il suo lavoro sul serial killer Lester Ballard è di quelli che qualche volta portano a casa anche l’Oscar. Ma, appunto, si voleva dare di più al film di Alexandros Avranas.
Che Miss Violence fosse il prediletto di molti, anche nella giuria, sembra indiscutibile. Ma nonostante ciò non ci si può che rallegrare per la vittoria di Sacro Gra: in un paese come il nostro in cui non mancano grandi registi, bensì i grandi sceneggiatori di una volta, il terzo bellissimo lungometraggio di Gianfranco Rosi riporta sullo schermo, dopo tanto tempo, personaggi che sanno essere al contempo drammatici e comici, grotteschi e tuttavia dotati di profondità insondabili. Personaggi che un tempo venivano scritti sulla carta e che oggi, all’indomani dello sdoganamento definitivo del documentario (anch’esso cinema a tutti gli effetti, come nota lo stesso Rosi) in Italia, ci vengono incontro dalla realtà stessa, dove d’altronde erano sempre stati.