Venezia 73 - Quit staring at my plate
La famiglia, in fondo, è la prima delle prigioni, ci dice la regista di Quit staring at my plate (tit. originale: Ne gledaj mi u pijat), doloroso film croato presentato nelle Giornate degli autori.
E come una prigione è, alla fine, la famiglia di Marjana, una giovane impiegata di laboratorio in un ospedale di un paesino della Dalmazia.
Una famiglia verticistica per di più, governata da un padre padrone vecchio stampo, con una madre che è quasi un riempitivo buffo e un fratello affetto da un qualche leggero ritardo mentale che lo rende bersaglio di facili prese in giro da parte dei vicini di casa.
Una famiglia-girone infernale in cui la ragazza sfiorisce un po’ per volta, incapace caratterialmente a ribellarsi e al tempo stesso con gli orizzonti troppo chiusi di chi ha vissuto in un ambiente asfittico tutta la vita e sente l’asma assalirgli i polmoni non appena gli spazi intorno si fanno un po’ più aperti.
Lo stesso quartiere di ordinaria disperazione entro il quale la famiglia vive non è altro che un immenso cortile nel quale le persone si spiano a vicenda, tutti presi nell’abitudine di condividere anche la stanchezza e i respiri mozzi.
Soffocata in questo doppio cerchio, Marjana conduce una vita tutta casa e lavoro, senza svaghi che non siano un gelato il pomeriggio con il resto di casa, senza fidanzati, senza prospettive di futuro reale e di un altrove.
Fino a che il padre di famiglia non ha un ictus e allora, cambiano, ma non troppo, tutti gli equilibri di un inquieto vivere. Non troppo perché Marjana diventa colei che porta a casa uno stipendio, ma non per questo madre e fratello le riconoscono un diritto a subentrare al capofamiglia.
Non troppo perché se è vero che ora la ragazza può prendere le decisioni da sola e scoprire l’ebrezza di cedere il proprio corpo al primo sconosciuto che le capita a tiro, non per questo può dirsi libera dai condizionamenti degli sguardi degli altri di un paesino troppo piccolo, tutto occhi e orecchie e poco cuore per sentire davvero il dolore dell’altro.
Così anche la tentazione di un altro da qui rappresentata da due studenti universitari che evocano per lei i tetti di Zagabria dalle spire del fumo di una canna, resta appunto più fumo che reale arrosto da mettere su una tavola sempre troppo vuota.
Di Quit staring at my plate tutto si può dire meno che non abbia alla base le più lodevoli intenzioni.
Forte di una premessa intrigante e di un personaggio femminile di quelli che si vedono abbastanza spesso nei festival (più cinema, insomma, che concretezza autobiografica), il film avanza verso il suo finale incedendo in una sorta di falso movimento che dal niente non può che approdare a un sostanziale nulla di fatto.
Del resto questo è il racconto di una prigione e il massimo dell’avventura non possono che essere i fatidici dieci minuti di aria in cui ci si concede poco più che una cicca da fumare in fretta.
Diviso tra il realismo dell’ambiente (colto con grande perizia attraverso una fotografia ben attenta ad arpeggiare su tutti i registri del degrado) e un certo spirito grottesco ad animare i personaggi di contorno, il film risulta per lo più fagocitato dalle esigenze del primo mentre il secondo toglie al narrato ogni possibilità di provare per questa umanità allo sbando un’autentica compassione o un minimo di pena.
Ne risulta un film intensamente claustrofobico e in certi momenti un poco troppo costruito. Spesso indeciso e per questo meno spesso intenso.
Però con attori eccellenti, sensibilmente diretti e con un’attenzione al dettaglio che lascia il segno.
(Ne gledaj mi u pijat); Regia e sceneggiatura: Hana Jušić; fotografia: Jana Plecas; montaggio: Jan Klemsche; musica: Hrvoje Niksic; interpreti: Mia Petričević, Nikša Butijer, Arijana Čulina, Zlatko Buric; produzione: Kinorama, Beofilm, Hrvatska radiotelevizija (HRT); origine: Croazia, Danimarca 2016; durata: 105’