Venezia 76 - Aru sendo no hanashi
Toichi è un vecchio solitario dal viso scavato di rughe come lo scoglio sul quale ha costruito la sua povera casa. Ha una barca - come Caronte - e la usa per traghettare le persone da una parte all’altra del corso di un placido fiume. Lo fa da una vita, perché è consapevole di non avere altri talenti che quello del remo che lavora l’acqua per tenere la rotta.
La sua vita è regolata sui ritmi della Natura e sul senso ciclico di un mondo sempre uguale, fatto di semplici gesti e poche parole.
Somiglia a una volpe, gli dice a un certo punto una donna che in pochi tratti gli racconta di sé. E nel dirglielo rimarca che, come la volpe, lui è solitario. Non cattivo, ma chiuso nei confini di una vita che vorrebbe poter restare sempre uguale.
Gli unici contatti improntati a serena confidenza sono con il vicino di casa, Genzo, un giovane anche lui di poco talento.
Con gli altri del villaggio, invece, c’è una consuetudine di silenzi e reciproca utilità che non diventa quasi mai dialogo profondo.
Si dice, però, che le cose cambino. Che niente tende a rimanere com’è. E, infatti, già a film iniziato, quel tratto di fiume è funestato dai rumori di un vicino cantiere.
Stanno costruendo un ponte per unire le due rive e, una volta completato, il lavoro di Toichi diventerà inutile come, in fondo, è già inutile Toichi stesso, anche se la barca è ancora necessaria per passare il fiume e la conoscenza del corso d’acqua dell’uomo è tale che gli basta il fiuto per capire come permettere a un toro di attraversare il corso sui tratti più bassi, che ci si continua a toccare.
La costruzione del ponte è il moderno capitalismo che avanza anche se ancora non riesce a spezzare i cicli di giorno e notte, di vita e di morte.
Certo l’acqua del fiume non è più pulita come una volta e, infatti, da che i lavori sono cominciati, le lucciole, tanto belle la sera, hanno cominciato a sparire.
E noi, che cogliamo il mondo con gli occhi dolenti di un uomo destinato alla sconfitta, un po’ ci sentiamo tristi di questo mondo con meno luci e più rumori. Un mondo come quei bambini, simbolo del nuovo, che sono tormento con i loro schiamazzi e lanci di sassi verso un altro mondo, quello di Toichi con il quale stanno perdendo ogni contatto.
È a questo punto che, in uno dei viaggi da una riva all’altra, avviene che il traghettatore batta col legno contro un fagotto che affiora a pelo d’acqua: è una giovane ragazza, apparentemente morta.
Toichi la porta a casa e scopre che è bisognosa di cure dopo una violenta botta alla testa che le ha tolto la memoria.
Intorno al ritrovamento si affacciano racconti spaventosi: pare che ci siano stati delitti terribili a monte del fiume e che la ragazza possa essere scampata miracolosamente a una vera e propria carneficina. O forse il delitto non c’è mai stato e l’identità della ragazza ha qualcosa a che vedere con una figura che si confonde con le rocce, un fantasma che avrebbe dovuto prendere in carico quell’anima destinata a nuova reincarnazione.
Ed ecco che il senso del titolo si palesa in tutto il suo carico di significati: che lo si voglia o meno, le cose cambiano. Il ponte sarà presto completato, la vita, con tutte le sue cure, già chiama altrove e sta solo a noi capire dove e capire come permettere al cambiamento di intervenire.
Aru sendo no hanashi (They Say Nothing Stays the Same) è un film di incantevole suggestione. Tutto costruito sulla resa di un tempo apparentemente immutabile, ma, in realtà, in perpetuo divenire.
Il ripetersi quotidiano dei gesti, urta, così, con l’impossibilità di un ritorno e trova nella metafora del fiume la sua più diretta espressione visiva: un paesaggio apparentemente sempre uguale, ma che a ben vedere, è segno del cambiamento perché l’acqua che scorre oggi non è la stessa che correva ieri.
Formato sulla forza di un montaggio dal tono descrittivo, attento a dare respiro a ogni singola pausa contemplativa, ma capace al tempo stesso di incresparsi nei momenti più onirici, quando la coscienza del protagonista si gonfia di presagi e il bianco e nero prende il posto del colore, Aru sendo no hanashi si rivela autentica sorpresa pur senza dare l’impressione di volersi troppo allontanare da un certo modello di cinema giapponese intessuto di realismo magico.
E azzecca almeno due sequenze d’antologia: il funerale accompagnato dalle lucciole e l’immagine finale del ponte ormai ultimato sul quale passano, come fantasmi, gli uomini di oggi, spersonalizzati nella fretta senza senso.
Insomma: un piccolo gioiello.
(Aru sendo no hanashi); Regia: Joe Odagiri; sceneggiatura: Joe Odagiri; fotografia: Christopher Doyle; montaggio: Masaya Okazaki, Joe Odagiri; musica: Tigran Hamasyan; interpreti: Akira Emoto (Toichi), Ririka Kawashima (ragazza), Nijiro Murakami (Genzo), Masatoshi Nagase (Nihei),Haruomi Hosono (padre di Nihei), Tsuyoshi Ihara (l’uomo del cantiere), Mitsuko Kusabue (donna sulla barca), Isaao Hashizume (dottore); produzione: Kinoshita Group; origine: Giappone, 2019; durata: 137’