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Venezia 76 - Bor Mi Vanh Chark (The Long Walk)

Pubblicato il 4 settembre 2019 da Alessandro Izzi

VOTO:

Venezia 76 - Bor Mi Vanh Chark (The Long Walk)

Un cinquantenne, accanito fumatore di sigaretta elettronica, lascia la sua casa immersa nel verde, per recarsi in città dove lo aspettano i suoi affari quotidiani.
Lo accompagna, lungo la strada, un’ombra gentile, il fantasma di una ragazza morta anni prima. La giovane non parla, legata al culto del silenzio di chi è consacrato ancora al mondo degli spiriti, tratto comune a molti miti dell’aldilà non solo orientali. Si limita, piuttosto, a seguire le orme dell’uomo, con la sua presenza silenziosa.
In realtà, lo spettro è legato al protagonista da un vincolo d’amore: da piccolo, l’uomo fu testimone della morte della giovane, avvenuta in non meglio precisate circostanze. Li unisce, dunque, la di lei riconoscenza, anche se il bambino che le tenne la mano durante il trapasso poi, incontrata la madre della ragazza, tenne segreto il luogo dove si trovava il cadavere, per poter continuare ad avere al proprio fianco la consolazione della compagnia dello spirito. Tradizione vuole, infatti, che i fantasmi dei defunti siano costretti a vagare, per lo più ignari della loro stessa sorte, sino a che non sia data giusta sepoltura alle ceneri della pira funeraria.
I motivi che spinsero il bambino a mentire sul fatto di non sapere dove fosse il corpo erano tutti nella sua dolente situazione familiare: la madre era gravemente malata e stava per morire, il padre, da parte sua, non aveva lavoro e stava per lasciare il piccolo villaggio rurale in cerca di lavoro nella capitale. Una scusa, in fondo, per lasciarsi alle spalle il fardello di una compagna morente e di un bambino del quale non sapeva prendersi cura.

È questa la premessa narrativa a monte di Bor Mi Vanh Chark (The Long Walk), di Mattie Do, presentato alle Giornate degli autori del Festival del cinema di Venezia.
Un racconto rurale, come in fondo ce ne sono tanti nel cinema orientale (anche se è da dire che c’è anche lo zampino produttivo della Spagna a monte di questo nuovo horror soprannaturale intinto nelle ansie del dramma esistenziale), ma in cui le adesioni alle dinamiche del genere non sono scontate come sembra.
Per quanto non ci siano elementi che dichiarino con precisione la collocazione temporale delle prime inquadrature del racconto, molti dettagli fanno presagire, infatti, che si sia un credibile e non troppo lontano futuro. Il primo segnale indiziale della lettura in chiave fantascientifica del racconto si ha quasi all’inizio, quando il protagonista si tocca il polso e, sulla sua pelle, compaiono, quasi a formare un tatuaggio, i numeri che marcano l’ora di un orologio. Apprenderemo più avanti che ogni individuo, anche in questo che è evidentemente un posto poverissimo dell’estremo oriente, è provvisto di un microchip che permette di ascoltare musica, di persino di connettersi ai dati bancari, semplificando lo scambio di valute e i pagamenti.
L’aura futuristica garantita da questi piccoli dettagli urta con la rappresentazione in fondo statica della povertà del villaggio, che, pur se costretto, ad esempio, a riempirsi di impianti per l’energia solare (notevole aggravio di spesa alle già precarie condizioni economiche dei singoli nuclei familiari) resta sempre legato a un’economia più vicina al baratto che ad altro e in cui il grosso dei guadagni sta nella coltivazione della terra e nella successiva vendita delle verdure raccolte in piccole bancarelle attrezzate in mezzo a sterrate assai poco frequentate.
Si tratta, in fondo, di una scelta consapevole della regista di inserire nel tessuto della descrizione del contesto sociale elementi estranei che impediscano il ricadere del racconto nelle dinamiche delle consuete descrizioni della povertà e delle zone rurali come sacche di resistenza di una forma di vita più autentica e più legata all’ambito spirituale.

Scelta, questa, che, paradossalmente si riflette anche nel mondo spirituale, dove alle consuete apparizioni si aggiunge un elemento nuovo: la possibilità, per gli spettri, di effettuare veri e propri viaggi avanti e indietro nel tempo portandosi dietro anche i vivi che restano in contatto con loro. Una volta appresa la possibilità, il cinquantenne, che nel frattempo aveva praticato con gentilezza l’eutanasia ai malati terminali del villaggio aiutandoli nel trapasso e raccogliendone le anime dolenti in un giardino nemmeno fossero fiori, ne approfitta per farsi ricondurre ai tempi in cui era bambino per aiutarsi a far morire la madre e a trattenerne l’anima.
Così raccontato, e senza ovviamente scendere in dettagli sul finale con superflui spoiler, il film potrebbe sembrare a suo modo veloce e quasi hollywoodiano. In realtà Mattie Do gira tenendo a mente il ritmo disteso delle contemplazioni meditative, sciogliendo ogni azione in lenti giri che poco spiegano dei vari paradossi temporali e dei salti d’epoca che nel frattempo si verificano e tutto lasciano in un’aura indefinita.
Così, per lungo tempo spaesato, lo spettatore finisce per aggirarsi negli snodi della narrazione con lo stesso passo erratico dei fantasmi, mentre le spiegazioni possibili restano per lungo tempo non dette come le parole che prudono sulle labbra degli spiriti.
Ne viene fuori un film a suo modo suggestivo, nelle sue calcolate lentezze, ma che non riesce a valorizzare l’oscillazione tra registro fantascientifico e registro soprannaturale, perdendosi un poco, alla fine, nelle spire di un paradosso temporale che si aggroviglia pure con le storie delle indagini sulla scomparsa delle donne nel villaggio nel corso degli anni che non portano da nessuna parte. In questo modo tutto il film si trova un po’ in un limbo, come i fantasmi messi in scena, a metà tra lodevolissime intenzioni e l’impressione che alla fine qualcosa di importante manchi a dare un senso complessivo alla visione.


CAST & CREDITS

(Bor Mi Vanh Chark); Regia: Mattie Do; sceneggiatura: Christopher Larsen; fotografia: Matthew Whitcomb Macar; montaggio: Zohar Michel; musica: Anthony Weeden; interpreti: Yannawoutthi Chanthalungsy (il vecchio), Por Silatsa (il ragazzo), Noutnapha Soydara (la ragazza), Vilouna Phetmany (Lina), Chansamone Inoudom (la madre); produzione: Lao Art Media; origine: Laos, Spagna, Singapore, 2019; durata: 116’


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