Venezia 76 - Corpus Christi
Perdonare non è dimenticare, dice il protagonista di Boże Ciało (Corpus Christi), piuttosto perdonare è Amore.
Il senso del perdono, in questo piccolo film polacco che fino a un certo punto sembrerebbe porsi sulle orme di Kieślowski per poi trovare strade più personali, risiede tutto nella capacità di conservare dentro il proprio cuore tutto il dolore del torto subito per trasformarlo in accoglienza dell’altro e in continua offerta di sé.
Sembrerebbe un sacrificio, l’olocausto dell’ego nelle fiamme di un dolore continuamente rinnovato e, invece, è l’esatto contrario. Perché il perdono non è gabbia, ma porta aperta, non è buio, ma speranza della luce.
Dall’altro lato c’è, invece, il rancore covato, il lutto costante per il colpo che è stato inferto alle nostre aspettative, l’apparentemente silenzioso macerarci in un malcelato desiderio di vendetta. Questi sì, segno di un suicidio dell’animo perché il rancore ci avvelena, la vendetta non riporta indietro le lancette dell’orologio ai tempi in cui credevamo di essere felici e il lutto è il nostro di modo di morire insieme alla cosa amata che ci precede nella strada verso la notte.
Accade così, in un paesino polacco vicino alla segheria dove lavorano i detenuti di un vicino istituto di riabilitazione criminale, che un incidente fatale rovini la vita a tutti. Si scontrano due macchine (tipico incidente kieślowskiano dovuto al puro caso) e tutti gli occupanti muoiono. Su una delle vetture c’era un gruppo di ragazzi: i figli, i fratelli i cugini di tutto il paese che conta poche anime e una sola chiesa. Sull’altra un solo uomo, conosciuto ai più per le pesanti sbornie. Così, anche se l’uomo non beveva più da almeno quattro anni, l’intera cittadina fa due più due e rifiuta alla vedova anche solo di esporre la foto del caro estinto insieme a quella dei ragazzi. Di più, connivente l’anziano parroco, all’uomo viene negata anche sepoltura e le sue ceneri restano in casa, sotto un altarino che più triste non si può.
Fato vuole, però, che arrivi in città un giovane. Dovrebbe lavorare come falegname secondo gli ordini del centro di detenzione, ma senza avere idea del guaio in cui si va a cacciare, si finge parroco e finisce per sostituire provvisoriamente (senza che la curia ne sappia nulla, si premura il più anziano collega per dare giustificazione, in sede di sceneggiatura, all’improbabile) il vicario malato.
Il ragazzo, poco più che ventenne, si chiama Daniel, e anche se ha una fedina penale piuttosto sporca e sembra, per questo, incapace di una vita sociale serena, ha sempre covato il desiderio di farsi prete. L’occasione è un modo per proseguire sul percorso di un’evoluzione spirituale di cui ci si dice poco, all’inizio, ma che l’interprete, Bartosz Bielenia riesce a rendere più che credibile.
Forte della sua storia personale, che è quella di un peccatore che vorrebbe calcare il sentiero della vera conversione, a Daniel è facile parlare ai fedeli della chiesa mettendoli di fronte all’urgenza del perdono. Anche perché, legato alla frase neotestamentaria che vieta il lancio del primo sasso a chi è senza peccato, a Daniel riesce in poco tempo di scoprire tutto il covo di piccole ipocrisie che stanno dietro alle tante persone che pure non perdono una messa la domenica. Così in un ciclo di agnizioni debitamente calibrato andiamo via via scoprendo che i ragazzi morti erano in realtà tutti ubriachi e drogati al momento dell’incidente, mentre l’uomo, forse, non aveva nemmeno bevuto, ma era se non altro scosso per un ennesimo litigio con la moglie da cui era stato scacciato.
Il senso del peccato diventa così l’altro grande tema che innerva la messa in scena di Corpus Christi. Perché peccare oltre che essere profondamente umano è anche cosa così facile. E di peccati sono piene le vite di tutti anche di quelle mamme, come avviene nella prima folgorante confessione che Daniel raccoglie a inizio film, che si arrabbiano perché il figlio fuma di nascosto, ma hanno ancora addosso il fumo di una sigaretta che nemmeno in confessione dicono di aver fumato appena un minuto prima.
Corpus Chisti è così un film a suo modo importante, una riflessione sul senso di un calvario (quello di Daniel, venduto per trenta denari e ricondotto nel peccato, ma anche quello di tutti gli altri personaggi) e sul senso della fede nel mondo di oggi.
Efficace nella prima parte, il film cede il passo a uno sviluppo forse un poco troppo ingarbugliato, ma si riprende nel finale meno scontato di quanto possa apparire. Una bella conferma per Jan Komasa, regista giunto alla sua opera terza (ma ha alle spalle anche corti e documentari), che vede nel film, prima di tutto lo scontro tra due opposti drammi: quello di un individuo asociale e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto.
Regia: Jan Komasa; sceneggiatura: Mateusz Pacewicz; fotografia: Piotr Sobocinski Jr; montaggio: Przemyslaw Chruscielewski; musica: Evgueni Galperine, Sacha Galperine; interpreti: Bartosz Bielenia (Daniel), Eliza Rycembel (Marta), Aleksandra Konieczna (Sagrestana), Tomasz Zietek (Pinczer), Leszek Lichota (Sindaco), Lukasz Simlat (Padre Tomasz); produzione: Aurum Film; origine: Polonia, Francia, 2019; durata: 116’