Venezia 76 - El Principe
Cile 1970: nel pieno delle controversie sulle ultime elezioni che vedevano Allende in testa con una maggioranza relativa del 36,3% (Jorge Alessandri Rodríguez era secondo con la differenza di meno di un punto percentuale) ci ritroviamo in un carcere maschile.
Vi è appena entrato Jaime, un ventenne piuttosto introverso, colpevole di aver ucciso, lacerandogli la gola con un coccio di bottiglia, un ragazzo più grande. L’omicidio sembrerebbe avere un movente passionale, ma troppo poco sappiamo di questo ragazzo che vive con un padre cui non riconosce molta autorità, passando le sue giornate tra dozzine di birre al bar e bagni di fango con i coetanei.
In prigione Jaime finisce nella cella dello “stallone”, un uomo maturo e molto rispettato dagli altri detenuti, che, sin da subito, mette il ragazzo sotto la sua ala protettiva. È l’inizio, questo, di un percorso di crescita lento e travagliato, che deve confrontarsi con la realtà della vita carceraria descritta dal regista con un tono quasi fassbinderiano non tanto per la dimensione omosessuale del racconto, quanto per la capacità di raccontare come i rapporti sessuali e interpersonali siano in realtà una complessa forma di esercizio del potere dell’uomo sull’uomo.
In questo, il microcosmo carcerario rivela, insospettata, una vocazione politica che Sebastian Muñoz, regista di questa interessantissima opera prima, non porta mai alla ribalta del discorso, ma lascia scorrere sotterranea, fino a farla deflagrare nel finale quando l’accensione della radio che trasmette notizie su Allende rende evidente la dimensione speculare del microcosmo carcerario rispetto al contesto sociale contemporaneo. Anche questo, a pensarci su un momento, un tipico modus operandi di Fassbinder.
Mentre Jaime cresce, secondo le dinamiche del Bildungsroman e acquisisce una maggiore comprensione di sé e anche delle pulsioni che lo hanno portato a uccidere, il suo rapporto con lo stallone si solidifica, andando oltre la prima attrazione sessuale.
Le confidenze che i due si fanno l’un l’altro si alternano così a momenti di gelosia, mentre, per lo spettatore, divengono man mano più chiare le dinamiche dell’esercizio del potere tra i detenuti che sono sostenute da continui scambi di merci come di piaceri sessuali, mentre la polizia, che dovrebbe garantire l’ordine all’interno della struttura, agisce nell’ombra, ritirandosi, quando il conflitto tra detenuti esplode nella violenza, o invadendo l’intimità delle celle quando si rende necessario intimidire chi comincia a diventare potenzialmente pericoloso.
I poliziotti agiscono, quindi, un poco nella forma della pressione diplomatica, pronti ad appoggiare, qualora ne fosse garantito un diretto tornaconto, un vero e proprio colpo di stato interno.
La possibile lettura politica del narrato, comunque, non sopravanza mai la sua componente umana. E il regista ha, in questo senso, mano ferma non solo nel raccontare come Jaime scali la gerarchia sociale interna al mondo carcerario, ma anche la delicatezza del suo rapporto con lo stallone verso cui il ragazzo prova dapprima timore e poi, in un crescendo credibilissimo, ammirazione, stima, fiducia, lealtà e autentico amore.
È anzi proprio nella capacità del regista di stare attaccato ai suoi personaggi, facendoli respirare oltre i confini angusti di un ambito maschile concentrazionario e facile al sovraccarico di toni, che sta il principale pregio di un film meno scontato di quanto possa apparire a prima vista.
Lecito, dunque, aspettarsi molto da Sebastian Muñoz per la sua, speriamo vicina, opera seconda.
(El Principe); sceneggiatura: Luis Barrales, Sebastian Muñoz; fotografia: Enrique Stindt; montaggio: Danielle Fillios; musica: Angela Acuña; interpreti: Juan Carlos Maldonado, Alfredo Castro, Gaston Pauls, Sebastian Ayala, Lucas Balmaceda, Cesare Serra, José Antonio Raffo; produzione: Marianne Mayer-Beckh – El Otro Film; origine: Cile, Argentina, Belgio, 2019; durata: 96’