Venezia 76 - Il Varco
Verità della finzione o finzione della verità: tra questi estremi si muove l’operazione de Il varco in una continua oscillazione che non ammette risposte facili e che ha i tratti di una vertiginosa discesa agli inferi.
Da una parte ci sono, infatti, le immagini di repertorio, che, per quasi innato automatismo, il pubblico italiano tende ad associare al “vero” anche se lo spettatore che abbia un minimo di dimestichezza con la Storia, sa bene come gli spezzoni prodotti dal Luce per i cinegiornali nazionali, per quanto affamati di reale come qualsiasi ripresa su campo, pagassero pegno al loro essere prodotti di un regime e, quindi, piegati a un non troppo segreto bisogno di propaganda.
Un’impressione di verità che continua quando ci si accorge che, ne Il Varco, costante è il ricorso anche a riprese amatoriali, recuperate da quegli home movies girati in otto millimetri (ma la maggior parte del materiale utilizzato è, comunque in Nove e mezzo e sedici millimetri e proviene dai fondi di Adolfo Franzini e di Enrico Chierici, due soldati che hanno partecipato alla campagna russa) con i quali le persone cominciavano, già negli anni convulsi della Seconda Guerra Mondiale, a riprendersi per poter dire in qualche modo di esserci state.
Materiali autentici che, però, poi urtano con l’evidenza di una terza tipologia di immagini che è quella delle riprese effettuate oggi e poi abilmente falsificate per mimetizzarsi, senza rinnegare la loro origine altra, anzi dichiarandola orgogliosamente, con quelle di ieri.
Ci vuole poco, insomma, a rendersi conto, durante la visione del film di Federico Ferrone e Michele Manzolini di come queste tre diverse categorie di materiali, armonizzate peraltro con grande sapienza compositiva e uno straordinario uso di elementi sonori e musiche, determinino una strana impressione nello spettatore che è continuamente portato dentro l’immagine e subito riportato fuori in un’oscillazione tra immedesimazione nel vissuto dei fantasmi che popolano lo schermo e riflessione critica sulle ragioni del loro destino.
_Un’oscillazione, questa, magnificata dalla presenza della voice over che racconta, in prima persona, gli eventi di guerra, fingendosi (ancora una volta menzogna, quindi) un soldato testimone della disfatta degli italiani in Russia.
Le parole scelte per il commento, che si avvale della collaborazione di Wu Ming 2, membro fin dalle origini del collettivo di scrittori Wu Ming, sono, però, anch’esse, come le immagini amatoriali, più vere del vero, essendo tratte dai diari di diversi soldati, tra cui non ultimo quello profondamente letterario di Mario Rigoni Stern.
Pur se finzionale, l’io narrante di Il Varco, è quindi la risultante di una complessa operazione di elaborazione di un materiale preesistente invece profondamente autentico e legato al genere della memorialistica. Ne viene fuori un personaggio profondamente credibile, con un suo vissuto, una sua storia e affetti propri anche nei momenti in cui più dichiarate ed evidenti sono le fonti utilizzate.
Anzi, verrebbe da aggiungere, che proprio questa strana sceneggiatura, ricostruita come un mostro di Frankenstein con pezzi vivi di altre storie e altri vissuti, sia il primo piccolo miracolo di un film che raggiunge vette emotive mirabili nella sua ora appena di proiezione.
Federico Ferrone e Michele Manzolini portano avanti l’operazione assai rischiosa, sulla carta, di piegare un’enorme mole di materiale nato per altre esigenze e con altri intenti, a raccontare una storia nuova, frutto di fantasia, sia pure documentata.
Nel farlo riscoprono, quasi per incanto, l’aura spettrale dell’immagine cinematografica, il suo essere simulacro di un mondo e di persone che non ci sono più (seppure mai ci siano state, come nel caso dei film di finzione) ed è con questa dimensione altra, semanticamente ambigua, che si confronta continuamente lo spettatore, privato com’è di ogni certezza su quanto sente e vede. In questo modo il pubblico è messo costantemente di fronte alla certezza di una memoria negata. Perché poco sappiamo della disfatta russa, se non quello che resta nei contorni di un non detto che ci assilla, come ancora meno sappiamo della storia coloniale africana che è rievocata dalla voce fuori campo, in forma dolente di flash-back, di racconto contenuto in un altro racconto, come una matrioska e per questo ancora più sfuggente per un paese, come il nostro, che ancora si abbevera della retorica degli italiani brava gente.
In questo modo il film apre scenari altri e inediti sul racconto della Seconda Guerra Mondiale e lo fa reinventandosi nella forma di un nuovo Cuore di Tenebra, un Apocalypse Yesterday che è anche un viaggio a ritroso alla ricerca dell’oscuro mito fondativo dell’Italia contemporanea, alla scoperta dei suoi fantasmi nell’armadio e dei suoi rimossi più profondi.
Un viaggio che ci porta ad aggirarci spaesati nelle immagini di altri soldati che in altri tempi provavano lo stesso sgomento, sperando, al più presto, in un possibile ritorno.
(Il Varco); Regia: Federico Ferrone, Michele Manzolini; sceneggiatura: Federico Ferrone, Michele Manzolini, Wu Ming 2; fotografia: Andrea Vaccari; montaggio: Maria Fantastica Valmori; musica: Simonluca Laitempergher; interpreti: Emidio Clementi; produzione: Kiné Società Cooperativa (Claudio Giapponesi), Istituto Luce (Roberto Cicutto); origine: Italia, 2019; durata: 70’