Venezia 76 - La Llorona
I riferimenti e le suggestioni che animano La Llorona di Jayro Bustamante, presentato alle Giornate degli autori del Festival del cinema di Venezia sono molteplici e molto stratificati.
Da un lato c’è il ricordo al processo del Generale Efraín Ríos Montt, tornato alla carica presidenziale del Guatemala nel 1995 (dopo una prima parentesi nel 1974, quando militava per la locale Democrazia Cristiana, e una seconda più consistente nel 1982, periodo dei fatti contestati a processo) e responsabile di un vero e proprio genocidio della popolazione Maya. Dall’altro il ricordo dei processi a Esteelmer Francisco Reyes Girón e all’ex commissario militare, Heriberto Valdéz Asij, accusati di aver ridotto in schiavitù domestica e sessuale molte donne tra cui in particolare una uccisa poi assieme ai suoi figli dal primo.
Nel tessuto narrativo del film si innestano quindi moltissime idee, quasi a disegnare un complesso arazzo in cui i fili principali dell’ordito riguardano una visione misogina della società, in cui la donna è del tutto subalterna alle scelte della politica e destinata a un ruolo puramente domestico e dimesso.
Vi si aggiunge poi, come sottotesto invadente e continuamente riemergente, quasi un rimosso spaventoso della narrazione come della memoria nazionale che quella narrazione sostiene e definisce, il ricordo mostruoso del genocidio delle popolazioni Maya, con l’enorme scia di sangue che scompare nella notte, in un incubo desaparecido che ci è molto più vicino nel tempo di quanto non faccia piacere credere.
In linea con queste suggestioni di riferimento, La Lllorona (che, lo ricordiamo, è il mito, molto popolare nell’America Latina del fantasma di una donna che ha perso il proprio figlio e che è spesso, ma non sempre, responsabile di quella morte) sceglie la strada di una sorta di cinema da camera, chiuso non solo tra le quattro mura della casa del Generale sotto processo, ma anche tra le realtà concrete delle donne di famiglia che si allungano per tre generazioni passando dalla moglie dell’anziano criminale, sino alla nipote, ancora bambina.
Il resto della narrazione resta chiuso in spazi prevalentemente astratti, come l’aula del processo, straordinaria nella sua astrazione costruita tutta sui volti attoniti del pubblico che assiste all’evento e che ha la sua origine mitica nel primo piano della donna della comunità Sepur Zarco che racconta la sua storia. Un primo piano che si allarga poi, con un discreto carrello all’indietro, al vero e proprio Tableau vivant del resto della sala che tradisce una fortissima vocazione pittorica: grande pregio del film. Un uguale procedimento d’astrazione riguarda, poi, i corridoi del palazzo di giustizia, attraversati da limpidi movimenti di macchina che amplificano l’inconsistenza materica dell’ambiente e restituiscono il luogo come spazio di una memoria labile, sempre sul punto di sparire nella tentazione dell’oblio.
Più concreti, ma comunque concentrazionari, gli spazi di transizione, come la stanza d’ospedale in cui per un breve momento viene ricoverato il generale dopo l’iniziale condanna, o l’interno dell’ambulanza: luoghi in cui è preponderante la ripresa frontale, a piano fisso, con scarso o nulla ricorso al montaggio, che dona all’ambiente l’impressione della quinta teatrale di una messa in scena.
Centro della narrazione è, dunque, la casa, vero e proprio luogo sociale. Imponente nel numero di stanze che la compongono e di corridoi da attraversare. Una casa presto assediata dai manifestanti che, pacificamente, contestano la decisione di annullamento della sentenza dei crimini contro l’umanità e che chiudono la storia intima dei legami familiari dietro i riflettori dello sguardo pubblico e in cui l’insistenza dello sguardo in macchina diventa espressione di una vera e propria irruzione del fantastico nel piano reale e al tempo stesso invito al pubblico (anzi comando) a una presa di coscienza politica.
Una situazione, quella dell’assedio, tipica, a pensarci su un momento, del classico meccanismo dello zombie movie, dove l’ultimo avamposto umano si chiude tra le mura apparentemente protettive di una casa, mentre fuori, tutto intorno, i morti si aggirano, incapaci a entrare.
E anche qui, in La Llorona, come nei film del magistero romeriano, la scoperta spaventosa è che la mostruosità esterna non è che un riflesso, addirittura pallido, della mostruosità interna. Tanto più che il dubbio larvale che il processo sia una montatura volta a colpire l’ormai ex presidente, cede quasi subito il passo a sospetti più intimi e dolorosi, come l’idea che il marito della figlia, sia stato fatto sparire dagli uomini del presidente per non intaccare la purezza dei legami familiari impastati di cristianesimo e superstizioni.
In questo contesto si moltiplicano apparizioni sovrannaturali che vengono a tutta prima scambiate per un aumento di sintomi di Alzheimer del Generale e che poi esplodono nel portentoso finale.
In questo modo l’horror come scelta di genere si ribalta nell’orrore dell’oggetto rappresentato in un continuo e assai proficuo scambio di impressioni in cui diventa difficile capire se sembri più spaventoso il racconto soprannaturale o il contesto reale di riferimento. Insomma, con La Llorona il cinema horror ritrova, nella sinuosità di una messa in scena di grandissima eleganza, tutta la vocazione politica del cinema horror. Un risultato davvero non da poco.
(La Llorona); Regia: Jayro Bustamante; sceneggiatura: Jayro Bustamante; fotografia: Nicolás Wong Diaz; montaggio: Jayro Bustamante, Gustavo Matheu; musica: Pascual Reyes; interpreti: María Mercedes Coroy (Alma), Sabrina De La Hoz (Natalia), Margarita Kénefic (Carmen), Julio Diaz (Enrique), María Telón (Valeriana), Juan Pablo Olyslager (Letona), Ayla-Elea Hurtado (Sara); produzione: La Casa de Producción; origine: Guatemala, Francia, 2019; durata: 97’