Venezia 76 - Psykosia
La mente umana è un labirinto kubrickiano nel quale è tanto facile perdersi.
Un luogo di svolte repentine e vicoli ciechi da cui, una volta entrati, può essere molto difficile uscire.
La psicoanalisi da parte sua è, piuttosto, la costruzione di un’immensa cattedrale. Usa come sostegno gli stessi muri che compongono l’impenetrabile dedalo dei nostri pensieri, ma si slancia poi verso il cielo, sfidando luce e gravità in campate larghe e maestose.
Soprattutto si porta dentro una presunzione, quella di poter capire qualcosa di quel caos primevo che è la presa di consapevolezza di un’identità, e uno strano senso di collettività. Perché a costruire cattedrali non sono i singoli, ma i popoli ed è il lavoro di tutti che poi diventa pietra e resta, sfidando i terremoti del rimosso che, giammai sopito, è rimasto sotto l’impressione razionale.
In fondo, è vero: noi ci costruiamo secondo i confini rigidi del pensiero egocentrato. Distinguiamo l’Io dal Tu sulla base di una presunzione che si forma con l’età e l’arrivo delle prime abitudini e delle prime paure, muri anche essi, a darci sicurezza di un interno inespugnabile all’esterno. E lo spogliarsi di tanta scorza davanti all’amore di un altro è sempre evento numinoso, fondato sul timor panico di perdere noi stessi e quei confini che con tanta fatica abbiamo costruito.
Ci sono, poi, però, casi di personalità più fluide, che sanno stare nel moto ondoso e in divenire del mondo come giunchi che, gentili, si piegano al capriccio del vento. Persone per cui la differenza tra te e me è meno chiara e, per questo, meno pronta alla frattura quando la tensione cresce. La loro è una presenza che spaventa, perché sembra indicare una possibilità migliore, un percorso ideale che sarebbe tanto meglio di questo dibatterci nell’impressione di incertezza.
Ci sono, infine, quelli che non reggono al dolore. Quelli per cui i muri del labirinto si stringono e crollano. Quelli che vivono tra i calcinacci di un io che cerca spazi e trova solo specchi rotti. Quelli che vedono il suicidio come risposta.
Non alla vita o alla morte, ma alla possibilità di far smettere le voci nella testa che spaventano e i suoni di quell’identità che scricchiola sotto il peso di una condizione esistenziale affannata nel suo bisogno di silenzi.
Questi ultimi sono i soggetti del lavoro di Viktoria, una ricercatrice nel campo del suicidio apparentemente compressa in una disciplina talmente ferrea da gelare il sangue.
La sua figura è tutta in questa strutturazione apparentemente razionale e si concretizza già nei capi che indossa: camicie leggere con alte gorgiere che, circondandole il collo, regalano, alla posa altera, l’impressione di un ritratto secentesco.
Viktoria entra in un istituto per curare Jenny, una ragazza con tendenze suicide che ha una sola compagna con cui riesce a stringere un rapporto saldo, fatto di fluida compenetrazione di io e tu.
Tra medico e paziente il rapporto cresce, giorno dopo giorno, in un reciproco influenzarsi che supera i limiti della deontologia professionale e si riempie di sinistre ambiguità.
Marie Grahtø (classe 1984), regista di questo Psykosia, presentato in concorso all’interno della Settimana Internazionale della Critica del Festival del Cinema di Venezia, sceglie per questa storia in cui niente è come sembra, uno stile visionario e razionale al tempo stesso in cui la narrazione, come riflessa in un gioco di specchi, si sfrangia in un percorso labirintico che prende alla testa lo spettatore e lo trascina in una dimensione allucinata.
Chiuse le porte dell’istituto psichiatrico e avviato il percorso conoscitivo con il quale il dottore dovrebbe guadagnarsi la fiducia del proprio paziente, il film si avvia verso una china spiraliforme in cui immagine richiama immagine, suono richiama suono, secondo un percorso calcolatissimo che ruota intorno al crollo delle convinzioni di Viktoria di fronte all’evidenza della malattia mentale come condizione esistenziale.
Ogni conto alla fine torna e il racconto, riannodato su se stesso persegue il difficoltoso passaggio dal labirinto alla cattedrale che è segno, se non di una guarigione, almeno di un superamento.
E sta proprio in questo tutto il fascino enigmatico di un’opera che ci guarda come una sfinge, mentre a noi spettatori non resta che riconoscere, sgomenti, il terrore dell’abisso.
(Psykosia); Regia: Marie Grahtø; sceneggiatura: Marie Grahtø; fotografia: Catherine Pattinama Coleman; montaggio: Linda Man; musica: Pessi Levanto; interpreti: Lisa Carlehed, Victoria Carmen Sonne, Trine Dyrholm, Bebiane Ivalo Kreutzmann; produzione: Amalie Lyngbo Quist, Julie Friis Walenciak – Beo Starling; origine: Danimarca, Finlandia, 2019; durata: 87’