Venezia 76 - Sayidat Al Bahr (Scales)
Hayat vive in un villaggio di pescatori governato da una misteriosa tradizione che prevede che tutte le bambine del villaggio siano sacrificate alle divinità del mare per propiziare la pesca. Le prede della caccia, portata avanti, invece dai maschi, sono delle creature simili a sirene, con la coda squamata e le fattezze delle bambine lasciate morire tra le onde.
Anche Hayat avrebbe dovuto essere sacrificata ai flutti, ma il padre, in un momento estremo di debolezza, non riesce ad abbandonare la piccola alle correnti marine e la riporta a casa, inimicandosi, con la sua azione codarda, il resto del villaggio e condannando la figlia al destino dei paria.
La ragazza, raggiunti i dodici anni, però, non si rassegna alla sua condizione e cerca disperatamente di farsi una posizione tra i pescatori che, inizialmente la respingono e poi la prendono sulla barca per la strana sintonia che dimostra con le creature del mare e per la sua capacità, spesso, di catturarne qualcuna praticamente a mani nude.
Hayat vive il suo rapporto con il mare con un misto di attrazione e repulsione. Soprattutto perché, col suo farsi donna, strane squame le si affacciano sulla gamba e l’acqua salmastra agisce su di lei come un richiamo spaventoso.
Sayidat Al Bahr (Scales) di Shahad Ameen è una fiaba arcana, dominata da una narrazione in chiave antropologica del rapporto tra i sessi. Le bambine, future donne, sono, da questo punto di vista, portatrici di vita da allontanare dal vissuto del villaggio e da riconsegnare al grembo uterino del mare che cresce e decresce secondo un ciclo lunare e mensile.
L’azione rituale della separazione porta, solo in un secondo momento, a un ricongiungimento con la componente maschile attraverso la metafora, anch’essa sessuale, della caccia che culmina con il divoramento della preda e, quindi, la sua definitiva riassimilazione al contesto sociale che è facile interpretare come metafora dei successivi nuovi parti.
In quanto racconto di matrice antropologica, il film di Shahad Ameen mette da parte ogni elemento romanzesco e cerca, invece, la chiave mitica e archetipale della fiaba e dell’epica.
La messa in discussione del padre del rito sacrificale non ha quindi connotazioni moderne, ma rimanda al rapporto controverso dell’uomo con la legge divina che viene riconfermata sempre in chiave ancestrale anche in quei momenti in cui sembra essere contraddetta.
Più facile a un’interpretazione quasi contemporanea è, invece, il personaggio di Hayat che vive di riferimenti a un’emancipazione femminile (una donna non convenzionale, che sfida le tradizioni e cerca per sé un’occupazione archetipicamente assegnata alla parte maschile della società) che è tipica di questo periodo e che non stupisce neanche all’interno di una società, come quella araba, in cui l’emancipazione femminile è, in alcuni ambiti, assai più avanzata di quanto le narrazioni contemporanee, votate al semplicismo delle contraddizioni manichee della lotta al terrorismo, ci facciano credere.
Sayidat Al Bahr (Scales) è, per questo, un’opera prima interessante e piuttosto originale.
(Sayidat Al Bahr); Regia: Shahad Ameen; sceneggiatura: Shahad Ameen; fotografia: João Ribeiro, AIP; montaggio: Shahnaz Dulaimy, Ewa Johansson-Lind, Ali Salloum; musica: Mike e Fabien Kourtzer; interpreti: Basima Hajjar, Ashraf Barhoum, Yagoub AlfarhanProduzione / Ben Ross – Image Nation Abu Dhabi FZ LLC; Paul Miller, Stephen Strachan – Film Solution; Rula Nasser – The Imaginarium Films; origine: Emirati Arabi Uniti, Iraq, Arabia Saudita; durata: 74’