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We Steal Secrets: the Story of Wikileaks - Festival dei Popoli

Pubblicato il 1 dicembre 2013 da Elisa Uffreduzzi


We Steal Secrets: the Story of Wikileaks - Festival dei Popoli

«I care?» Questo l’interrogativo etico sotteso all’intera operazione di Wikileaks e al film di Alex Gibney: 130 minuti di dettagliata ricostruzione delle vicende del portale di diffusione di notizie riservate dell’intelligence internazionale, la cui fortuna ha subito una brusca frenata nel 2010, con l’arresto del suo leader e fondatore, Julian Assange e il blocco dei principali mezzi di pagamento (Visa, Mastercard, Paypal, ecc.) utili a elargire donazioni all’associazione. Una strategia che comunque non ha segnato la fine del controverso open access il cui sito Internet, tutt’oggi attivo, oltre a continuare inarrestabile nella sua missione di informazione, è stato il principale supporto per Edward Snowden nella vicenda del Datagate che l’ha recentemente visto protagonista. Fuga di notizie o trasparenza? Furto di documenti o giusta condivisione di informazioni? Gibney sembra voler tentare una sincera ricostruzione dei fatti, ma il vistoso logo Universal che sigla i titoli di testa e le immagini futuristiche di pixel fluttuanti e vedute satellitari disseminate lungo il film, pongono qualche dubbio sulla genuinità dell’operazione, insinuando che la sua pretesa inchiesta sia più simile a un blockbuster hollywoodiano che a un documentario. A conferma di simili sospetti Stefania Maurizi (giornalista de L’Espresso e collaboratrice di Wikileaks) e Kristinn Hrafnsson (portavoce ufficiale dell’organizzazione) sottolineano le numerose inesattezze del film. A cominciare dal finale, nel quale si dichiara falsamente che l’organizzazione è attualmente morta e sepolta.

D’altronde - precisa Hrafnsson - né Assange né Wikileaks hanno collaborato alla realizzazione di We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks, di modo che quello che poteva essere un ottimo reportage giornalistico si rivela «a character assassination», “l’uccisione” dell’immagine pubblica di Assange.

Anche Bradley Manning, l’analista informatico dell’esercito americano responsabile del furto di centinaia di migliaia di documenti dai server militari e diplomatici degli Stati Uniti e condannato a trentacinque anni di reclusione per reati contro la sicurezza nazionale americana, viene qui ritratto principalmente come una persona psicologicamente instabile, svalutandone così le ragioni politiche. Il discusso caso svedese di presunta violenza sessuale ai danni di due donne; il ruolo della stampa internazionale (The Guardian in primo luogo) che fece da cassa di risonanza a Wikileaks, salvo poi sconfessare l’organizzazione alle prime difficoltà; il ruolo di innesco nei confronti della cosiddetta primavera araba (2011); la difficile questione etica implicita nella diffusione di notizie riservate e di interesse internazionale: al di là dell’esattezza e delle discutibili pretese artistiche, We Steal Secrets ha se non altro il merito di riportare l’attenzione su una tempesta mediatica che ha cambiato irreversibilmente le relazioni diplomatiche internazionali. Mescolando stralci di interviste alle persone interessate dai fatti e filmati d’archivio, il film tenta una ricostruzione dell’opera di un’organizzazione relativamente piccola, che è stata in grado di far tremare il mondo e l’intelligence americana in particolare.

Se dietro la bufera mediatica scatenata da Assange ci fosse la sincera volontà di dimostrare come ci possa essere un altro modo per trattare la sicurezza nazionale o si nascondessero più prosaiche manie di gloria, non sta a noi stabilirlo, ma è un dato di fatto che Wikileaks abbia segnato un punto di non ritorno dopo il quale si sono moltiplicate iniziative simili, come quella di Snowden, che hanno richiamato a viva forza l’attenzione internazionale su questioni come la privacy e la trasparenza, il diritto all’informazione e la diplomazia internazionale, sconvolgendole irreversibilmente.

Fanno eco alle dichiarazioni di Hrafnsson quelle di Stefania Maurizi che, da giornalista, pone l’accento sulle problematiche concernenti il rischio legale che comporta per un giornale pubblicare notizie riservate del calibro di quelle diffuse da Assange e il suo team: un ottimo deterrente nelle mani della leadership mondiale, laddove in gioco c’è la credibilità di certi governi.

Quanto alle accuse di fondamentalismo e anarchia mosse da più parti a Wikileaks, la giornalista italiana risponde che sono state compiute dall’organizzazione valutazioni etiche in modo da discernere cosa pubblicare e cosa no, nel rispetto della dignità umana. La diffusione indistinta di notizie top secret è dunque un mero falso con intento diffamatorio ai danni del portale di Assange.

Tre anni fa è stato appositamente istituito negli Stati Uniti un Grand Jury con l’esplicito obiettivo di raccogliere informazioni atte ad accusare Assange e la sua organizzazione, le cui indagini sono ancora in corso. Frattanto Assange si trova all’ambasciata dell’Ecuador a Londra e comunque andranno le cose la squadra di Wikileaks si dichiara disposta a collaborare con cineasti emergenti per la realizzazione di un film che finalmente le renda giustizia, purché - afferma Hrafnsson alludendo sarcasticamente ai lauti finanziamenti Universal di cui ha disposto Gibney - abbia «un buon cuore piuttosto che un grosso portafoglio». Quanto all’Italia - suggerisce la Maurizi - nel Paese dell’omertà sulle stragi, Wikileaks è proprio ciò di cui avremmo bisogno.


CAST & CREDITS

(We Steal Secrets: the Story of Wikileaks) Regia: Alex Gibney; sceneggiatura: Alex Gibney; fotografia: Maryse Alberti; montaggio: Andy Grieve; musica: Will Bates; produzione: Jigsaw, Global Produce, Universal Pictures; origine: Stati Uniti; durata: 130’.


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