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Wu qiong dong

Pubblicato il 18 settembre 2005 da Fabrizio Croce


Wu qiong dong

Come un frutto all’apparenza invitante e succoso, ma internamente amaro ed esangue, questo piccolo film cinese lascia una sensazione di asprezza e di verità dolorose che si insinuano con l’inganno, visto che il racconto si lascia seguire in maniera così gradevole e divertita.Eppure già le prime inquadrature di una casa cinese vuota, senza alcun rumore se non quello della voce di una donna che chiama la presenza di qualcuno che non c’è, danno la misura di una situazione fatta di un limbo femminile di ricordi, frustrazioni e sottile perfidia ma anche di un’impalpabile soffererza esistenziale.La donna di quella casa cinese divisa tra il design moderno degli interni e il classico cortile esterno delle case cinesi, scoprirà il tradimento del marito da uno scambio di mail via internet con una donna che non può che essere una tra le sue tre più care e vecchie amiche. Questo vuole scoprire invitandole a festeggiare la festa di Primavera, ovvero il capodanno cinese, che si trsformerà in un gioco al massacro con l’arma del denudamento e dello svelamento di emozioni primarie, attaccate ad un passato in cui le ragioni della Storia e delle storie personali si intrecceranno nei fili del desiderio che diventa struggente malinconia e della riflessione politica ormai ridotta a sarcastica constatazione sulle scempiaggini che si vedono alla tv di stato.Trattandosi di un film da camera, la forza evocativa della parola è fondamentale e, secondo una pratica consueta del cinema da “salotto”, si parte sempre dal gioco per innescare la confessione.Ma la regista imprime una curiosa, cocciuta forza ai volti, agli occhi, ai sorrisi, alle bocche di queste cinque donne, in particolare durante una memorabile scena in cui degustano zampe di gallina allo zenzero e a un certo punto sembra che stiano divorando una parte, almeno quella più arcigna e viscerale, di loro stesse che infatti, dopo questo montaggio conviviale e sincopato di ossa di pollo spolpate, acquisteranno maggiore verità di comunicazione e di contatto e ancora un volta ciò verra esplicitato dalle successioni dei volti e delle voci che talora si faranno dolenti monologhi interiori, in un ideale passaggio di testimone dal corpo come porta per il piacere sensoriale a espressione immediata, diretta, incontrollabile-il riso, il pianto, l’ironia,-delle più vaste sfumature della psicologia e dell’emotività.Pechino, la città di grandezza e disfacimento dove tutto avviene, rimane sullo sfondo, come un grande lenzuolo bianco su cui sono state cancellate la falce, il martello e il colore rosso e dove ora è possibile sporcare con tinte anche più fosche o magari più tenui la convenzione di una memoria collettiva che appiattirebbe qualcosa che rimane personale, unico ed irripetibile: L’esperienza della vita.Pechino nel senso istituzionale e storico non può esistere tra la rete di pensieri e sensazioni condivisa da quelle quattro donne: c’è nel ricordo nascosto di un amante dissidente finito in prigione e costretto a “convertirsi” al partito, nell’immagine di un padre che sfilava tra gli ufficiali, nelle spillette con la faccia di Mao e nei dischi che inneggiano alla rivoluzione visti come affettuosa chincaglieria infantile, ma l’atmosfera è di negazione, di disagio tramutato in isteria, tradimento che una volta svelato fa sprofondare nuovamente tutto nel silenzio, rotto esclusivamente dal pianto monotono della più scontata delle amanti e concluso con l’unico esterno del film: Una passeggiata tra persone non comunicanti che riproduce quel “moto perpetuo”-traduzione del titolo originale-che sembra non avere soluzione o significato.Come il rumore sordo di un tentativo di connessione telefonica.

[Settembre 2005]

Regia: Ying Ning sceneggiatura: Ying Ning interpreti: Huang Hong, Sola Liu, Qinqin Li, Yanni Ping produzione: Beijing Happy Village


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