Zodiac

Il cinema di David Fincher è il luogo dell’oscurità, regno di un inquieto timor panico e di una claustrofobia che imprigionano il vivere, per meglio violentarlo e stremarlo, e condurlo alla morte, ultimo capolinea di un sofferto stato di precarietà dell’essere sospeso sul vuoto del non essere. Un cinema che è onirico allo stato puro, e puramente onirico come solo il cinema sa essere. Cinema che è messa in scena di un incubo.
Tematicamente, Zodiac (da poche ore presentato in concorso al Festival di Cannes) non si discosta dalle opere precedenti del regista di Denver. Ma, in quanto forma cinematografica, è uno strano essere, un inaspettato e intraprendente cambiamento di rotta all’interno della filmografia fincheriana: per quanto le sue opere abbiano finora sempre ceduto al fascino del barocco, questa sua ultima è, invece, risultata inaspettatamente asciutta nel suo apparato audiovisivo.
Zodiac è il serial killer per antonomasia, il primo a diventare un caso mediatico negli Stati Uniti, uno dei figli della terra promessa che ha messo i suoi compatrioti di fronte alla perdita dell’innocenza. Zodiac è stato colui che ha gettato un’ombra di morte sulla Baia di San Francisco, negli anni più belli, quelli hippie tra il finire dei Sessanta e l’alba dei Settanta. Zodiac diventerà il mostro imprendibile, un caso ancora oggi irrisolto, un uomo che ha ucciso non più di tredici persone, o forse anche una trentina - come lui stesso ha dichiarato nelle lettere che spediva alla polizia e ai giornali - forse accollandosi tanti omicidi non suoi, in un delirio di onnipotenza, o in un tentativo di diventare il catalizzatore ultimo di tutte le paure dell’americano medio: il mostro assoluto, ma anche la mediocre banalità del male. Zodiac è, forse, un ex-insegnante squilibrato, accusato di pedofilia; o, forse, un disegnatore di locandine cinematografiche; o, magari, nessuno degli oltre duemila imputati di anni e anni di ricerche. Forse è morto, ma il suo nome riecheggerà ancora nelle coscienze di molti.
Zodiac è un Fantasma che può assumere qualsiasi sembianza, un Mito che tutto contiene, una Storia da raccontarsi tra amici. Ma è, anche, un film che è un ensemble di vite colte nel loro (dis)farsi, prese tutte da un obbiettivo troppo grande, inseguitrici di una chimera che pare perdersi nel tempo, un ricordo ormai lontano per molti, ma non per tutti: non per Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal) e Paul Avery (Robert Downey Jr.), rispettivamente vignettista e capo reporter della nera del ‘San Francisco Chronicle’; ma non lo è neanche per due membri della omicidi del Dipartimento di polizia, gli ispettori Dave Toschi (Mark Ruffalo) e William Armstrong (Anthony Edwards). Venticinque anni, una vita intera persa tra il 1966 e il 1991, mai raccontata per flash-back, ma attraverso una linearità che vuole restituirci il flusso della vita, mantenendone intatta la sua caratteristica non fluidità, il suo arenarsi nelle sabbie mobili del ricordo, senza che in nostro aiuto (pro)venga un’audioimmagine di un passato che comunque diventerebbe sempre troppo artificiosamente nitido. Per cui solo parole che rimandano a scene mai visibili, ma solo immaginabili. Zodiac è un sogno raccontato in tempo reale. Ma un sogno ossessionato dal tempo che scorre: didascalie con la data precisa di fatti ed avvenimenti, ellissi sempre più ampie nel periodo di inattività del killer, salti temporali che ci conducono per mano fin quasi ai nostri giorni, verso un inquietante finale che non è la fine di niente.
Per cui Zodiac solo in parte è un thriller: per il resto è il reportage su una crime story. Un’indagine di due giornalisti, nei modi di Tutti gli uomini del Presidente (film del 1976 di Alan J. Pakula) espressamente citato da Fincher anche attraverso la scelta del medesimo compositore: David Shire, il cui lavoro è attorniato da canzoni del tempo (un po’ come S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York, il capolavoro di Spike Lee, ritratto della generazione del ’77 cacciata da un serial killer così vicino a Zodiac). Continuamente la vita insegue l’arte e l’arte la vita, nel film di Fincher: Zodiac ha cominciato a predare uomini, perché ispirato da La pericolosa partita; ma lui stesso è stato ispiratore della figura di Scorpio, personaggio talmente cinematografico da essere ucciso da un qualunque Dirty Harry nel brave spazio di un film.
Mentre l’intento di Fincher era, evidentemente, quello di uscire dal genere: peccato che stavolta il passo sia stato troppo lungo, tanto da portare il nostro amato filmaker a inciampare in una prolissità lunga 156’ (causati dalle maniacali ricerche fra le pagine di Robert Graysmith e gli archivi della polizia) e in una perdita di controllo sul materiale trattato - mentre, invece, tra Arte e Vita, è sempre la prima che dovrebbe avere la meglio- che non hanno di certo giovato nel ricreare un soddisfacente ritratto di una generazione di delusi e sconfitti, difetto acuito dalle scelte musicali che non riescono a restituire una felice rappresentazione d’epoca. E neanche il cast artistico brilla in modo particolare, se si eccettua il sempre più grande Robert Downey Jr.
Fra tante parole, però, rimarrà sempre una perla impressa nella memoria: un omicidio sotto un cielo sgombro di nubi, in una giornata di sole che domina la bellezza di una natura calma e l’amore di due giovani.
(Zodiac) Regia: David Fincher; soggetto: tratto dai romanzi Zodiac e Zodiac Unmasked: The Identity of America’s Most Elusive Serial Killer Revealed di Robert Graysmith; sceneggiatura: James Vanderbilt; fotografia: Harris Savides; montaggio: Angus Wall; musica: David Shire; interpreti: Jake Gyllenhaal (Robert Graysmith), Robert Downey Jr. (Paul Avery), Mark Ruffalo (Dave Toschi), Anthony Edwards (William Armstrong), Brian Cox (Melvin Belli), Chloë Sevigny (Melanie), Elias Koteas (sergente Jack Mulanax); produzione: Warner Bros., Paramount Pictures, Phoenix Pictures; distribuzione: Warner Bros.; origine: U.S.A. 2006; durata: 156’; web info: sito italiano, sito internazionale.
