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Ballo a tre passi

Pubblicato il 19 settembre 2003 da Alessandro Izzi


Ballo a tre passi

Ballo a tre passi, opera prima di Salvatore Mereu vincitrice a Venezia della settimana della critica è, in realtà, una molto letteraria raccolta di quattro novelle cinematografiche tanto ambiziose quanto, sostanzialmente poco riuscite nel loro ricorrere a soluzioni narrative sempre terribilmente abusate. Nella prima (Primavera, seguendo un consueto e iper usurato ciclo calendaristico in cui il rincorrersi delle stagioni corrisponde al passare delle età della vita), assistiamo alle avventure di un gruppo di ragazzini che si recano, a bordo di un camion, sulla spiagga a vedere per la prima volta il mare. Il racconto segue, in questa come nelle successive novelle, un dettato realistico ai limiti di certo versimo letterario (di qui anche la scelta di girare in dialetto sardo) in cui la macchina da presa, cogliendo con realismo fenomenologico la realtà che si dipana davanti allo schermo, tenta, al tempo di stesso, di seguire, simbolicamente, il flusso di coscienza e i pensieri dei giovani protagonisti. L’iniziale contrasto di luce ed ombra, di paura e decisione (il protagonista della novella deve recuperare il suo costume da bagno in una spece di scantinato, ma ha paura di un topo quasi morente che squittisce disperatamente la propria agonia) racconta simbolicamente una sorta di platoniana nascita al mondo. Gli stupori dei ragazzi, la loro giocosità sfrontata, la loro primaverile sessualità che ancora non ha trovato una specifica direzione (uno dei ragazzini più grandi, allontanatosi dal gruppo si masturba tra le dune della spiaggia) hanno tutte le caratteristiche di un classico racconto di formazione semplice e piano. Il regista indugia sui primi piani dei suoi ragazzi, scelti con un occhio sempre attento alla maniera, e chiarisce, fin dall’esordio, che il nucelo che orienta l’intero racconto è tutto erotico. Il sesso, quindi, antropologicamente inteso come elemento che governa il mondo e le azioni degli uomini, diventa il necessario protagonista della seconda novella (Estate) in cui seguiamo le disavventure erotiche di un giovane pastore alle prese con la sua prima bellissima ragazza (una fanciulla francese pilota di un piccolo aereo). Anche questa volta il racconto avanza in maniera piana, racconta il trascorrere dell’adolescenza verso il mondo adulto con tutti i topoi necessari che vengono, anzi, messi in bella vista come se ci si trovasse di fronte ad una tesina di antropologia culturale. Storia di una parziale negazione del sesso è, invece, la terza novella (Autunno) che racconta le vicende di una suorina che ritorna nel suo paesino natale per assistere al matrimonio della sorella. L’autunnalità dei sensi, la scelta consapevole di porsi fuori dal mondo (e, quindi, dal gioco dei sessi) si accompgnano ai soliti rimpianti non detti, alla solita malinconia velata, al solito rincorrersi di primi piani intensi e di frasi non pronunciate (c’è spazio anche per un gioco di sguardi che racconta una possibile storia d’amore non consumata). Il quarto racconto (Inverno) si svolge, infine in città, ed è la storia di un vecchio che vive solo, che ha perso definitivamente ogni contatto con il mondo e che si limita a sopravvivere in attesa della morte che giunge, alla fine, come una liberazione. La macchina da presa lo sorprende nella sua quotidianeità raccontandoci una storia minimale che ha tutto il sapore del già detto e del già ripetuto. Il finale, con la partenza dell’anima del vecchio sull’aereo della giovane francese morta alla fine del secondo episodio (i personaggi delle varie novelle ritornano continuamente), nel suo rincorrere atmosfere felliniane (la passeggiata di gruppo sembra una copia stinta delle passeggiate di Amarcord) rivela fino in fondo il peso dell’ambizione di questo giovane autore, lasciandoci tutti un po’ perplessi. La progressione tra una novella e l’altra è inesorabile e detta fino all’ossessione. Il dettato narrativo segue un percorso rettilineo e circolare al tempo stesso che avanza nel ciclo stagionale secondo un modello di forte ascendenza letteraria. Tra la nascita al mondo di Primavera e la perdita di ogni contatto con la realtà circostante di Inverno si chiarisce, gradualmente, agli occhi dello spettatore il senso di una circolarità rincorsa più per partito preso che per esigenze espressive, mentre la progressione dall’infanzia al mondo adulto è resa tutta con espedienti linguistici e con artifici di ambientazione. La lingua utilizzata nella pellicola, sembra, infatti, voler ritrovare le stratificazioni linguistiche del Verga verista. Nel primo racconto a trionfare è il solo dialetto sardo mentre (come in La terra trema di Visconti) a parlare italiano sono solo le figure che sintetizzano l’ordine e la legalità (i poliziotti). Nel secondo fa la sua comparsa l’italiano come lingua nazionale ed obbligatoria, ma compare anche il francese a sancire, a livello di dialoghi, anche l’inconciliabilità tra i sessi (i due protagonisti si innamorano, ma non si comprendono reciprocamente parlando due lingue diverse). Nel terzo la protagonista del racconto parla solo italiano anche se riesce ancora a capire il dialetto della sua regione. Il quarto, invece è un racconto totalmente in italiano. La progressione nella gestione degli ambienti è ancora più evidente dal momento che ad essere raccontata è il passaggio dall’ambiente incontaminato della spiaggia del primo epsiodio, a quello della città industrailizzata dell’ultimo passando per gli ambienti rurali degli episodi centrali. Ne viene fuori il ritratto di una società sarda che va man mano spegnendosi nella raggiunta italianità. Con malinconia e con egocentricità.

(Ballo a tre passi); Regia: Salvatore Mereu; sceneggiatura: Salvatore Mereu; fotografia: Renato Berta, Tommaso Borgstrom, Renato Bravi, Nicolas Franick; montaggio: Paola Freddi; interpreti: Caroline Ducey, Yael Abecassis, Michele Carboni; produzione: Gianluca Arcopinto e Andrea Occhipinti per Eyscreen; distribuzione: Eyescreen/Lucky Red

[settembre 2003]


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