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Eventi Speciali: Persona non grata

Pubblicato il 19 settembre 2003 da Alessandro Izzi


Eventi Speciali: Persona non grata

Oliver Stone è sicuramente un regista che crede fermamente in ciò che fa. Non sempre, però, il tempo e l’occasione gli permettono di portare realmente a compimento quello che aveva immaginato e sognato. Nel concepire il progetto per il suo ultimo documentario sulla questione palestinese (un’opera di appena un’ora girata e montata in un digitale d’alta qualità), il regista non aveva potuto prevedere fino in fondo tutte le difficoltà che si sono, poi, materializzate, come per incanto, sul suo cammino. è chiaro che, nelle intenzioni dell’autore, il film avrebbe dovuto essere ben altrimenti problematico e profondo di come, poi, è stato. Anche se il risultato finale è ben al di sotto delle pur nobilissime intenzioni (e, diciamolo subito, non si può certo incolpare Stone del parziale fallimento) si può percepire chiaramente, tra le righe, tra i fotogrammi, che il filmato, così com’era stato ideato, avrebbe dovuto essere non solo un’indagine accurata sulle cause del costante conflitto nell’area mediorentale, ma anche e soprattutto una visione d’insieme, uno sguardo al di sopra delle parti che all’analasi accurata potesse aggiungere anche l’utopia di indicare una strada verso una qualche soluzione del conflitto stesso. L’idea inconfessata che serpeggia tra le righe di un discorso volutamente non giudicante sulla realtà palestinese era che, se si vuole, si può giungere ad una qualche via d’uscita dall’apparente vicolo cieco di una guerriglia costante ed inarrestabile. Una strada che può essere imboccata solo se si riesce a vedere le cose con assoluta chiarezza e con la ragoinevolezza dei giusti. Certo c’è una punta non indifferente di presunzione nel concepire una cosa del genere, ma, senza un po’ di folle determinazione egoica, neanche il ben più interessante documentario su Castro (Comandante) realizzato dallo stesso regista avrebbe mai visto la luce. Il problema principale, comunque, risiede nel fatto che Gerusalemme non può in alcun modo essere paragonata alla Cuba castrista e che il leader maximo non è in alcun modo assimilabile alle contraddizioni dei governi israeliani e palestenisi costretti, dalla fine della seconda guerra mondiale, ad una convivenza forzata. Se può essere vero, infatti, che gli israeliani hanno tutto l’interesse a prendere parte ad un’opera/intervista portata avanti da una troupe americana (e del resto le armi con cui combattono la controparte araba sono gentilmente fornite dall’esercito statunitense), non la stessa cosa può essere detta della parte avversa. Per questo motivo quello che avrebbe dovuto essere il filmato di un confronto ideale tra i rappresentati delle due parti in causa si è trasformato, in corso d’opera, in un altro film, totalmente diverso: la storia dei problemi incontrati per riuscire ad intervistare Arafat, la cronaca dei continui appuntamente disattesi, delle continue promesse infrante, delle difficoltà di un incontro che non si è mai realmente concluso. Se la figura del leader diviene per questo sfuggente ed ambigua (un’ambiguità che certo non giova, nel contesto del mediometraggio, alla sua stessa causa), non da meno l’immagine risultante del mondo arabo, per quanto restituita senza sottolineature evidenti, appare quella di un mondo preda di una rabbia e di una frustrazione che difficilmente può essere spiegata. All’interno di una popolazione composta per il 75% di persone al di sotto dei trentacinque anni di età (la fascia per natura più idealista e, per questo, influenzabile e manipolabile), che celebra i propri martiri con santini appesi alle pareti delle case e con guerriglieri (tre sono intervistati dal regista) pronti ad immolarsi per la propria causa sembra esserci poco spazio per un dialogo (Viviamo in una regione in cui ci sono molte lingue, ma ben poche orecchie è la sintesi ideale di uno stato di fatto indubitabile). Viene fuori da tutto questo un’immagine troppo sbilanciata in una direzione (uno sbilanciamento che il regista denuncia, comunque, apertamente) per risultare fino in fondo veritiero e troppo parziale per riuscire ad offrire la speranza di una soluzione. Il problema vero, comunque, la cosa che alla fine invalida le nobili aspirazioni dell’autore è che quanto viene raccontato nel film è, bene o male, quello che già tutti noi sappiamo sulla questione palestinese e che non basta la maestria tecnica del regista (efficace il montaggio, ottima l’impostazione del materiale) a rendere quest’opera realmente fondamentale. Il documentario, assai efficace soprattutto quando la camera scende in strada e riprende con lucido realismo quello che passa davanti alle proprie lenti, tradisce alla fine lo stesso assunto teorico che ne aveva motivato la realizzazione. E ci lascia in bocca l’amarezza per una realtà conflittuale e dolorosa che sfugge del tutto ad ogni tentativo di conciliazione e di pacificazione.

(Persona non grata)

Documentario Regia: Oliver Stone

[agosto 2003]


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