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BLACK BOOK

Pubblicato il 31 gennaio 2007 da Salvatore Salviano Miceli


BLACK BOOK

Il ritorno cinematografico in Olanda di Paul Verhoeven, dopo i numerosi successi conseguiti al botteghino con la sua produzione Hollywodiana, ha come risultato Black Book (t.o.Zwartboek), già presentato in concorso al recente Festival del Cinema di Venezia.
Basato su eventi realmente accaduti, ma artificiosamente romanzati secondo le necessità della sceneggiatura, il film racconta la storia di Rachel Steinn, interpretata da una stupefacente, per talento e grazia, Carice Van Houten, cantante ebrea sopravvissuta all’olocausto e soggetto attivo della resistenza antinazista.
Abituati agli ultimi lavori del visionario regista, basti ricordare gli splendidi effetti speciali di Total Recall (1990) giustamente premiati con la preziosa statuina dell’Academy, sorprende un po’ la scelta di buttarsi nella realizzazione di un film storico che ben poco spazio può lasciare all’immaginazione. Eppure, Black Book è un progetto che parte da lontano. Venti anni di studio, condiviso con il cosceneggiatore Gerard Soeteman, hanno preceduto la realizzazione del film. L’ambientazione è quella del nord dell’Olanda nel biennio ’44 – ’45 in piena occupazione nazista. La storia è rude, proprio perché basata su di una realtà storica che il regista, così come espresso in conferenza stampa, afferma di avere tenacemente approfondito, ed è apprezzabile lo sforzo di non lasciarsi conquistare dal solito, per i film bellici, manicheismo. Attenzione, però, siamo ben lontani dall’appiattimento dei ruoli, e delle conseguenti resposabilità, tra occupanti (nazisti) e occupati (resistenza) in nome di un revisionismo che è stato tirato fuori con troppa facilità in relazione al film. Verhoeven si limita a mostrare come la guerra conduca ad azioni, e reazioni, spesso estreme, lontane da una qualche morale, ed in grado di appartenere a tutti, ma è netta la separazione tra chi gli orrori li compie per pura follia strategicamente omicida e chi, subendoli, è costretto ad una difesa fisicamente, ma non eticamente, altrettanto feroce.
Il risultato è decifrabile in 135’ minuti di proiezione, francamente troppi, che non sempre si attestano su vette soddisfacenti. Dopo un inizio non deprecabile, in cui i personaggi principali vengono ben delineati e tipizzati, infatti, iniziano pericolose cadute di ritmo, accompagnate da uno stile che, probabilmente per mancanza d’abitudine, tende troppo spesso al manierato.
L’eccessiva prolissità, impadronendosi della narrazione, sottopone l’attenzione degli spettatori a sforzi a volte superflui. È un film che chiaramente gioca la sua carta migliore sull’aspetto emotivo, ma proprio quest’ultimo finisce con il risultare talmente accentuato da perdere, in certi frangenti, spontaneità e veridicità. Troppi particolari, infatti, appaiono forzati strumentalmente in nome di un protagonismo registico che sopravanza la natura realistica della storia. Si finisce così in trepidante attesa di un epilogo che troppo tarda ad arrivare.
Certi trucchi, poi, che ben si addicono ai generi trattati in precedenza da Verhoeven e che, anche in maniera furbesca, gli hanno spesso garantito grandi numeri al Box office, risultano corpi estranei se calati all’interno di una struttura dalle forti tinte drammatiche, dove è d’obbligo una meticolosa attenzione nel sapere dosare gli esercizi di stile.
Come spesso capita, laddove, dunque, si tenta una spettacolarizzazione della sofferenza ed una commistione non sufficientemente coesa tra fiction e realtà, si ottiene una lenta ma progressiva intrusione in una ibridazione solo a tratti convincente.
Non riesce il bravo regista olandese, nel suo film, a realizzare compiutamente quel dualismo tra arte e commercio, suo punto di forza, che in passato ha invece regalato pellicole di ben altro valore; una tra tutte quel Soldat van Oranje (t.i. Soldato d’Orange) del 1977, nobile progenitrice di questa sua ultima fatica. Un’ultima considerazione deve essere fatta in merito alla triste abitudine del doppiaggio. Se, a volte, i doppiatori costituiscono un valore aggiunto per l’opera (e ciò vale soprattutto per alcuni doppiatori nostrani), ci sono casi in cui sostituire la lingua originale equivale a privare il film della propria anima. Verhoeven si era volutamente affidato a quattro idiomi diversi, tre europei (inglese, tedesco e olandese) più quello ebraico, scelta assai interessante e che ben rifletteva sia il momento storico che le diversità e le comunanze europee. Il doppiaggio, che risparmierà solo le copie destinate alla Gran Bretagna dove il film uscirà in lingua originale, contribuisce ad appiattire un film la cui paternità resta assolutamente importante, perché Verhoeven è regista di valore, specie ricordando opere quali De Vierde Man (t.i. Il quarto uomo), Turks Fruit (t.i. Fiore di Carne) o l’irriverente Starship Troopers, ma che alterna attimi di buon cinema a momenti meno esaltanti.


CAST & CREDITS

(Zwartboek) Regia: Paul Verhoeven; sceneggiatura: Paul Verhoeven e Gerard Soeteman; fotografia: Karl Walter Lindenlaub; montaggio: Job ter Burg, James Herbert; musica: Anne Dudley; scenografia: Wilbert van Dorp; costumi: Yan Tax; interpreti: Carice van Houten, Sebastian Koch, Thom Hoffman; produzione: Fu Works; distribuzione: DNC; origine: Olanda, Belgio, Germania, Gran Bretagna; durata: 135’


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