CORTESIE PER GLI OSPITI - L’Angelo Sterminatore
"Come a teatro, comincia lo spettacolo!"
Nell’epoca contemporanea, il sottogenere apocalittico ha preso sempre più piede, sul grande e piccolo schermo, in varie sfaccettature e verso diverse direzioni; sottolineando un bisogno, maggiormente crescente – da parte dei cineasti – di raccontare storie dal contesto irreale o futuro talora più, spaventosamente, allineato a quello reale e odierno, nel tentativo di poterlo, magari, esorcizzare. Oltre ai blockbuster del Roland Emmerich ( Independence Day ) di turno, non sono pochi gli autori che hanno calcato, almeno una volta, tale strada e che hanno pure tratto ispirazione da maestri della macchina da presa che avevano colto l’occasione prima di loro. È il caso di Darren Aronofsky ( Pi Greco – Il Teorema del Delirio ), che per il controverso Madre! ha saccheggiato preziosi elementi – per, poi, rielaborarli e riproporli alla sua maniera – proprio a L’Angelo Sterminatore , scritto e diretto da un autore altrettanto capace di far discutere come Luis Buñuel ( Il Fascino Discreto della Borghesia ). Il magnum opus più che mai audace – datato 2017 – del regista candidato 1 Oscar, per Il Cigno Nero , aveva polarizzato critica e pubblico; ma ha, tuttora, il potenziale per essere elaborato e rivalutato nel tempo, al pari di un vino che necessita d’invecchiare per essere digerito e gustato completamente. La pellicola dell’artista spagnolo – molto vicino a Salvador Dalí ( L’Età dell’Oro ) – fu, invece, presentata, a suo tempo, al Festival di Cannes – dove vinse il Premio FIPRESCI del Concorso – e si piazzò al terzo posto nella Top Ten annuale dei Cahiers du Cinéma – scavalcando l’ 8½ del nostro Federico Fellini ( Amarcord ) solo decimo (!) – per, poi, rimanere, ad oggi, tra i suoi titoli più noti e memorabili. La stesura dello script trovava la fonte originaria nel soggetto iniziato dal poeta e scrittore José Bergamín ( Il Fantasma della Libertà ); che venne, in seguito, trasformato nella suddetta sceneggiatura dallo stesso amico Buñuel e da Luis Alcoriza ( Tarahumara – La Vergine Perduta ).
"Credo che le classi inferiori siano meno sensibili al dolore."
Una cattedrale gotica e il canto di un coro da chiesa. Il cartello di un viale chiamato “Calle della Provvidenza”, che – attraverso una carrellata – sposta i nostri occhi su una strada – inquadrata in campo lungo – dove s’intravede un cancello imponente, pronto ad aprirsi. All’interno, in una villa aristocratica e lussuosa, si riunisce un gruppo di ricchi borghesi per un dinner party, a seguito della visione di uno spettacolo teatrale di lirica. Nell’incipit de L’Angelo Sterminatore , quella che sembra una semplice cena tra amici – a cui i soldi piovono, persino, dal cielo – si trasforma in un onirico ed inimmaginabile incubo. In un clima da “cortesie per gli ospiti” e riverenze ossequiose, gli invitati si addormentano sugli allori – passando la notte nella magione – e, abbandonatisi tra le braccia di Morfeo, iniziano a rivelare i loro caratteri ben contrapposti. Il folto ensemble corale – nel quale figurano gli attori messicani Silvia Pinal ( Viridiana ) e Claudio Brook ( 007: Vendetta Privata ), scritturati anche in altri film di Buñuel – incarna una fauna di personaggi che rappresentano – ognuno, in modo diverso – specifici archetipi di uomini e donne dell’alta società. Pedine di un plot architettato dal cineasta stesso; nel quale ricorrono i principali topoi della sua filmografia, facenti parte anche del proprio vissuto personale e privato: il punto di vista conflittuale sulla fede e la religione, la sensualità e l’abbandono alle pulsioni fisiche e sessuali – viste anche come forma di peccato – e l’analisi costante della società, in ogni comportamento possibile. Essi si manifestano anche per mezzo di dettagli a cui lo sguardo o l’orecchio più inesperto potrebbero non prestare attenzione: le icone sacre sparse – come dipinti o statuine d’arredo – tra la mobilia dell’appartamento, i riferimenti ai preti e a Lourdes, le inquadrature ravvicinate di uno degli invitati che tocca – delicatamente, ma con passione palpabile – i seni e i fianchi della donna amata. Ma il topos caratterizzante del film – e, anch’esso, fulcro della carriera e della vita Buñuel – è, senz’altro – rappresentato dalla psiche e dal potere suggestionale dell’inconscio. La percezione della realtà oggettiva di ciò che avviene in quella casa si altera e si confonde – per i personaggi, ma anche per il pubblico – alla maniera di un tranello psicanalitico dal quale è difficile venire fuori. Gli orologi ticchettano e il tempo scorre. Dopo una notte trascorsa ancora insieme, quei nobili viziati non hanno alcuna voglia di tornare a casa. O, forse, ne sono incapaci. Un’energia sconosciuta, una forza che sembra andare oltre qualsiasi raziocinio e potere umano fa perdere loro il controllo. Non a caso, entra in gioco, la figura fondamentale del medico e psicoterapeuta; il quale – presente tra i commensali, sin dall’inizio, e definito lo “Sherlock Holmes” della situazione – tenta di dare (o di darsi) una spiegazione razionale e scientifica delle sensazioni di disagio che tutti stanno avvertendo. Il pensiero scientifico e mentale si contrappone, quindi, a quello religioso e sensoriale; ma, al contempo, anche a quello magico. Il soprannaturale assume raffigurazioni e simbolismi esoterici riconducibili non esclusivamente al Cristianesimo; ma anche alle tradizioni antiche spagnole, alla Cabala e alla superstizione – con la manifestazione palese nella sequenza di un rituale in cui vediamo le zampe e le penne di un uccello morto.
"Perché avere paura della verità? Stiamo vivendo in un porcile, come maiali." "Non dobbiamo abbandonare la nostra dignità umana e tramutarci in bestie."
Una delle letture più chiare e palesi de L’Angelo Sterminatore è la sprezzante critica all’alta società e all’ipocrisia borghese imperante; dove ogni individuo finge di essere amico dell’altro e ne parla male alle spalle – come avviene durante la cena iniziale, in cui la lunga tavolata è la metafora della mondanità stessa a strettissimo contatto. I commenti al veleno, tra un boccone e l’altro, si sprecano ed è, immediatamente, “fiera della vanità”; a discapito, soprattutto, della servitù – derisa e sbeffeggiata, perfino crudelmente. Le donne si dimostrano più spietate degli uomini – tra loro o con i rispettivi mariti, amanti, fratelli, amici – e, inabili nel contenere l’ossessione per la bellezza, ricorrono insistentemente, al grande specchio del salotto; pettinando i capelli, toccando il volto, per trovare il riflesso grimildiano del proprio ego e della propria avvenenza esteriore rinforzati – anche quando la condizione di coabitazione precipita. In un lasso di tempo impercepibile, tutte le maschere cadono di fronte alla vera essenza naturale e personale di ciascun personaggio. La recita s’interrompe e l’isteria cresce, mandando in crisi tutti e scandagliando dinamiche umane e psicologiche di una sottigliezza tutt’altro che semplice da cogliere. Alla narrazione principale che si disvela tra le mura della villa, si unisce, in parallelo, un subplot all’esterno della tenuta, dove uno sciame di persone – sempre più esteso e curioso rispetto allo strano fenomeno venutosi a creare – si piazza davanti alla cancellata; senza riuscire a fare anche un solo passo per scavalcarla. Un bambino – nella totale fanciullezza e ingenuità – tenta di oltrepassare la soglia e ci riesce. Poi, però – tra le voci di chi lo incita e chi, al contrario, lo scoraggia – torna indietro e rinuncia. I benestanti che si prendevano gioco dei servitori si ritrovano, pertanto, a sperimentare essi stessi la vicinanza con la miseria. La casa diventa un mondo a sé stante, i viveri scarseggiano e – in un’emblematica sequenza – quegli individui di alto rango passati dalla parte della plebaglia sono costretti a rompere le pareti di cemento e a dissetarsi con l’acqua che scorre all’interno delle tubature. Con l’incalzare della vicenda, è sempre più lucida la fotografia di una punizione divina verso l’Uomo. Tra gli immancabili vizi della bella gente non manca, poi, la droga, estratta dall’anfitrione – da un cofanetto – mentre esclama: “Chiamavamo questa casa Paradiso di Tebe”. Un Paradiso egizio di lusso, ostentazione e abuso di potere nei confronti dei sottomessi, colpito, inevitabilmente, dalle Piaghe inflitte da Dio.
"Non siamo matti, vero?" "Non siamo sotto un incantesimo. E questo non è il castello di uno stregone." "Da quanto tempo siamo qui? Da più di un mese, vero? È un’eternità che siamo qui dentro. E qui rimarremo per sempre. A meno che non fuggiamo uniti e ci perdiamo nell’ombra."
Il Surrealismo di Buñuel permea, immancabilmente, l’essenza de L’Angelo Sterminatore e si manifesta chiaramente nella scena allucinatoria dove vediamo una mano recisa che cammina sulle proprie dita – marchio di fabbrica del visionario autore – con l’intenzione di strangolare una delle donne ospiti. Così come nel momento in cui l’inserviente Julio (Claudio Brook) – affamato e senza nulla da poter trangugiare – manda giù dei pezzi di carta, affermando, con convinzione: “È buona, riempie lo stomaco ed essendo fatta di foglie e rami teneri, non può essere nociva.” Ma anche nell’aspetto surreale del film entra in gioco l’inconscio, declinato – nella fattispecie – nei sogni. In una sequenza ammaliante e angosciosa, in egual misura, osserviamo gli inquilini improvvisati mentre dormono e vagano, ad occhi chiusi, tra fantasie psichiche di varia natura (e origine) e in esse viene nominata anche la figura del pontefice. La mirabile regia di Buñuel restituisce, perfettamente, allo spettatore il senso spaziotemporale via via più indefinito – e la correlata astrazione rispetto allo stesso – vissuta, in primo luogo, dai protagonisti. Nonostante le riprese si svolgano, prevalentemente, in interni, l’impostazione quasi teatrale non pesa affatto e men che meno sottrae attenzione. La fotografia di Gabriel Figueroa ( La Notte dell’Iguana ) contribuisce, inoltre, ad aggiungere un’appropriata atmosfera d’inquietudine – in un contrasto di buio e luce, tipico delle pellicole in bianco e nero.
"E dalle tenebre, vieni e aiuta la tua fedele. Me, che sono la tua amante. E nell’ora della morte, io mi dono a te, o signore delle tenebre. Vieni, vieni, vieni…" "È come se fosse una voce soprannaturale. Il castigo dell’Angelo Sterminatore."
In un microcosmo d’irreale surrealismo, si dipanano l’allegoria e la satira – sagaci, crudeli e profondissime – che Luis Buñuel condisce – grazie anche al suo personalissimo genio – con ingredienti filosofici, simbolici e criptici che non saranno nitidi – e, forse, tutt’altro che leggibili – per i lettori miopi e dalla scarsa capacità d’osservazione. La lotta di classe prende piaghe catastrofiche di proporzioni bibliche. I ricchi si fanno la pelle tra loro – privati di qualsivoglia benessere e comfort – e, in un istante di epifania, realizzano che l’unica priorità da raggiungere è la sopravvivenza individuale; anche a costo di far cadere la Falce su qualcun altro. “Mors tua Vita Mea”, dicevano i latini nel Medioevo. Quale migliore parafrasi per rendere appieno il marciume e la mostruosità nascoste nell’ombra dell’animo umano e pronte ad esplodere, ferocemente, quando il suolo sotto i piedi si sgretola, fino a spaccarsi e a condurre nell’abisso mortale? È questo "il castigo" de L’Angelo Sterminatore ?