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FESTA DEL CINEMA DI ROMA - CONFERENZA STAMPA DI KURT COBAIN: ABOUT A SON - 18/10/06

Pubblicato il 18 ottobre 2006 da Carlo Dutto


FESTA DEL CINEMA DI ROMA - CONFERENZA STAMPA DI KURT COBAIN: ABOUT A SON - 18/10/06

AJ Schnack è il regista del documentario Kurt Cobain: About a son, presentato nella sezione Extra della Festa di Roma. Giovane, sorridente e gentile, nalla Sala Incontri dell’Auditorium spiega come la passione per la musica del cantante dei Nirvana e una fortunosa scoperta abbiano reso possibile il documentario, toccante e appassionato.

Da dove nasce l’idea di un film su Kurt Cobain e quali obiettivi voleva raggiungere nel realizzarlo?

Tutto ha avuto inizio dalla scoperta di numerosi nastri registrati di una lunga intervista a Kurt, registrazioni mai ascoltate né tantomeno circolate prima d’ora. In questi nastri le sue parole rivelano un aspetto molto intimo di Kurt, ma ciò che mi ha spinto in questo progetto è stata la volontà di cercare di dare un’immagine alle sue parole, di trovare e riprendere ciò che raccontava o almeno di ricreare il mondo che descriveva.

Un documentario che rivela subito uno stile visivo che ben si innesta alle conversazioni e ai ricordi di Cobain...

Alcune scelte sono specifiche, per esempio quando nell’intervista si sentono pezzi che riguardano la sua esperienza nella cittadina di Olympia, ho voluto girare le immagini dei luoghi dove ha vissuto, anche sul luogo di lavoro del padre, la segheria alla periferia della città. Volevo donare il senso delle tre città dove Kurt ha vissuto, Aberdeen, Olympia e Seattle, tre città molto vicine l’una all’altra, nello stato di Washington, ognuna delle quali ha influenzato moltissimo la sua vita, nei momenti belli e in quelli più bui.

Per il documentario ha in qualche modo avvicinato la vedova Courtney Love e come ha reagito o partecipato alla realizzazione?

Courtney non ha partecipato in prima persona alla realizzazione del documentario, abbiamo fatto solo in modo di informarla del progetto quando stavamo per intraprenderlo, ricordandole che avremmo usato le interviste di Kurt, aggiornandola man mano sull’andamento delle riprese.

Quale aspetto ha scoperto di Kurt che prima di ascoltare i nastri e intraprendere il progetto documentaristico non conosceva?

Uno dei grandi rimpianti di Kurt era quello di sentire dentro di sé di essere diventato quasi un personaggio da fumetto, uno stereotipo. Sia per la sua forte dipendenza dalle droghe che per le circostanze della sua morte per suicidio, Kurt viene ricordato unicamente per le sue caratteristiche negative. Io ho scoperto un uomo a 360 gradi, che sapeva essere divertente e rabbioso, spiritoso e intelligente, brillante e spesso paranoico, un essere umano dalle molteplici caratteristiche. Ho cercato di evitare il clichè del documentario glorificante, il mio obiettivo era quello di riportare Kurt al pubblico a un livello più intimo, personale, comprendendo la sua estrema fragilità.

Kurt Cobain viene infatti ancora ricordato dai media per il suo suicidio, piuttosto che per la sua musica. Perchè?

Spesso i personaggi della musica e dello spettacolo vengono ricordati per due o tre elementi negativi della loro vita, nel caso di Kurt le controversie sul suo stile di vita e le numerose illazioni sul suo suicidio hanno rischiato di far passare in secondo piano la sua musica. Kurt ha vissuto poco tempo nella notorietà, peraltro sempre tumultuosa e piena di controversie, e questo fa gola ai media, che spesso ‘devono’ creare mostri.

Nel documentario si nota una precisa scelta musicale, che oltre alla voce di Cobain, vede protagoniste musiche di altri gruppi. In base a quali criteri le ha scelte?

Uno degli scopi dichiarati del film è quello di capire che uomo fosse Kurt e per rendere meglio questo fine, ho deciso che nel film avrei voluto sentire, oltre che vedere, le cose dal suo punto di vista. Quella che sentiamo è infatti la musica che lui avrebbe sentito e che ascoltava veramente. Per questo ho utilizzato musiche di numerosi gruppi musicalmente diversi, dai suoi amati Melvins ai Queen, dai Vasolines alle Breeders, dai REM a Iggy Pop alle punk bands come i Bad Brains. Tutte bands che lo hanno influenzato anche musicalmente, a giudicare dal suono di dischi come Nevermind o In Utero.

Era appassionato della musica di Cobain e dei Nirvana anche prima di realizzare il documentario?

Sono un appassionato di musica prima di tutto. Ma spesso non ho imparato nulla anche da grandi gruppi di cui adoro le musiche e canzoni. Ma dei Nirvana sono un fan della prima ora, e penso che sia per me che per moltissimi americani della mia generazione l’arrivo sulle scene musicali di un gruppo come i Nirvana fu davvero linfa vitale. Ci siamo subito riconosciuti nelle loro liriche, in una esperienza comune, che involveva i giovani americani della generazione post-sessantottina. Avevamo vissuto un drastico e atteso cambiamento nella struttura sociale, l’esperienza della Guerra Fredda, dei miglioramenti che investivano il mondo delle donne e degli omosessuali, una sorta di rinascita giovanile che ha portato a una sorta di caos generale che si è canalizzato nella rabbia giovanile pura, marchio di fabbrica della scena grunge di Seattle e del sound dei Nirvana.

Aveva già realizzato dei film musicali?

Il mio primo lungometraggio riguardava il gruppo dei They might be giants, che ho intitolato Gigantic ( A tale of Two Johns).

Come pensa che sarà accolto dal pubblico il suo film?

Molte delle persone che hanno già visto il film, mi hanno detto che non è girato in uno stile tradizionale rispetto al genere biografico. Infatti non si tratta di un documentario rock, cerco solo di gettare luce sulla personalità di Kurt e spero che questo arrivi al pubblico, d’altronde per la persona che era, Kurt meritava un approccio diverso e più umano.


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