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FESTA DEL CINEMA DI ROMA - QUELLI CHE VANNO E QUELLI CHE RESTANO: MARCO BELLOCCHIO E BERNARDO BERTOLUCCI INCONTRANO IL PUBBLICO - 19/10/06

Pubblicato il 21 ottobre 2006 da Marco Di Cesare


FESTA DEL CINEMA DI ROMA - QUELLI CHE VANNO E QUELLI CHE RESTANO: MARCO BELLOCCHIO E BERNARDO BERTOLUCCI INCONTRANO IL PUBBLICO - 19/10/06

E’ la prima volta che Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci partecipano insieme a un incontro. Il tema “Quelli che vanno e quelli che restano” è desunto da due dipinti di Umberto Boccioni, parte del ciclo intitolato “Stati d’animo”.

Ho la sensazione che forse questo movimento un po’ pendolare rispetto alle origini (nel corto di Bertolucci è più allegorico e irreale) possa descrivere la vita di ognuno: è tipico in Occidente diventare qualcosa di diverso. Altrettanto importante è il movimento del tornare. Movimento fisico, movimento mentale: tornare di continuo alle origini. Tutto ciò ha a che vedere con le sensazioni che provate?

Bertolucci: trovo bellissimo il film di Marco. Ogni volta che ho fatto un film, ho avuto la tentazione di essere qualcun altro (Godard, Renoir), invece Marco è sempre stato violentemente sé stesso: anzi, perché queste mie parole non implichino una sua immobilità, dico che diventa ogni volta sé stesso.
Bellocchio: anche io ho avuto delle passioni per degli autori, a volte in una maniera un po’ troppo ossessivamente narcisistica; però ho sempre cercato di essere personale, di tenere sempre insieme vita e arte, di fare in modo che la mia vita corrispondesse a quello che facevo: questo atteggiamento va contro la cultura imperante di pensare una cosa e farne un’altra.
Sorelle è un lavoro frutto di una collaborazione con i ragazzi di Fare cinema, che io mi sono permesso di firmare. Sono stati scelti tre episodi, con un tema in comune.
E con le mie sorelle ho lavorato con dolcezza.

Immagino vi siano stati dei momenti in cui vi siete sentiti più vicini, mentre in altri vi sarete sentiti più lontani. Vi ricordate quando avete incontrato il cinema dell’altro?

Bertolucci: mi sembra di avere incontrato Marco per la prima volta nel 1962, a causa di Sandro Franchina (ndr: grande irregolare del nostro cinema, autore di un solo lungo, Morire gratis, e morto nel 1998), poco prima che cominciassi a girare La commare secca; c’erano parecchi allievi del Centro Sperimentale. Quando annunciai che il giorno dopo avrei cominciare a girare il mio primo film, ci fu un’ondata di incredulità: di Marco ricordo il silenzio. Alcuni di loro addirittura vennero sul set per vedere se davvero stessi girando un film! Marco, invece, fu più cauto nella sua incredulità.
Dopo al Centro sperimentale vidi il documentario Abbasso il zio: mi colpì molto.
Io amavo molto la Nouvelle Vague, lui il Free Cinema inglese: due correnti tra loro molto diverse.
Nel 1964 uscì Prima della rivoluzione, nel 1965 I pugni in tasca: questi pugni li sentii nello stomaco, e pensai, io di Parma, che anche da Piacenza possono provenire dei grandi artisti...! Sono due film cugini: il mio è malinconicamente autobiografico, quello di Marco è atrocemente autobiografico. Quest’ultimo Sorelle è realizzato nei luoghi de I pugni in tasca, e ogni tanto Marco discretamente ce lo ricorda: è qualcosa di più forte e violento, di meno parmense.
Bellocchio: dal 1965 e fino alla fine degli anni ’60 c’è stato un confronto più ravvicinato. I Quaderni Piacentini hanno portato avanti un discorso moralistico di critica nei confronti del cinema e della letteratura romani, ad esempio contro Pasolini che al tempo scriveva sul Corriere della Sera. Dal Conformista e da Ultimo tango a Parigi il confronto si è dilatato e abbiamo preso due strade e due destini diversi. Ma siamo e siamo stati due autori e artisti che si guardano e si interessano l’uno all’altro.

In Sorelle la premessa cechoviana può essere adattata a voi due: entrambi avete lasciato l’anonimità della provincia.

Bertolucci: è ovvio che in Prima della rivoluzione c’è un atteggiamento verso Parma che non è lontano da quello di Piergiorgio che legge Cechov, nelle cui parole si sente un atteggiamento di battaglia, già fatta da Lou Castel. Da giovani si prova sempre dell’odio verso la provincia, ma poi dopo i trenta, o i quarant’anni, si può pensare che la provincia sia l’unico posto dove si può vivere in Italia.

Potrebbe parlarci di quello che ci ha narrato in Histoire d’eaux?

Proviene da una storia raccontata da Adriana Asti in Prima della rivoluzione, poi me la ha raccontata anche Elsa Morante: si tratta di una storia indiana, dagli Indù chiamata «storia d’acqua».
In entrambi i film vediamo passare il tempo: in quello di Bellocchio è Elena a crescere, nel mio il bambino viene visto in tre diverse età.

Non esistono conflitti che la trama del tempo possa sanare? Il rapporto tra fratelli: Elena chiede «Chi è mio padre?». In Sorelle vi è un’idea della famiglia che è diversa da quelle che solitamente possiamo trovare nelle tue opere.

Bellocchio: la famiglia ormai non esiste più...
Sorelle è stato improvvisato: in me c’è sempre una istanza di voler tirare fuori dei temi che mi urgono continuamente, cerco sempre personaggi che in quel dato momento siano in sincronismo con me. Alla fine presento una serie di personaggi femminili presi dai miei film, per dire che questo confronto con l’immagine femminile, anche in un contesto familiare, non posso metterlo da parte: ad esempio, il personaggio interpretato da Donatella Finocchiaro compare solamente nel terzo episodio.

Per Bertolucci: Perché il titolo del suo film è in francese?

Volevo facesse pensare a Histoire d’eau di Godard. Da giovane ero talmente innamorato della Nouvelle Vague, che alla mia prima intervista in Italia dissi ai giornalisti che avrei parlato in francese...

Qual è l’importanza di questo primo Festival di Roma per l’industria del cinema italiano?

Mi dispiace, ma non passo spesso a Via Veneto: è quello il luogo dei valzer industriali...!
All’inizio ero un po’ perplesso, ma devo ammettere che siete riusciti a coinvolgere molto la città; forse potete ancora migliorare, ma in fondo nella vita tutti gli uomini possono migliorare.

Sappiamo bene che lei non ama molto parlare di Pasolini, ma vorrebbe comunque raccontarci un ricordo che ha di lui?

A me piace molto parlare di Pier Paolo, ma privatamente: parlare in pubblico presenta sempre un carattere di ufficialità.
La prima volta che l’ho incontrato, avevo 14 anni ed era domenica, nella casa dei miei genitori a Monteverde, a Roma. Lui bussò alla porta, mi disse che aveva un appuntamento con mio padre. Ma io non conoscendolo e impaurito dal suo aspetto (il ciuffo nero, il suo viso forte) lo lasciai aspettare sul pianerottolo. Andai da mio padre e gli dissi: «C’è uno che ti cerca, ma secondo me è un ladro». E mio madre gridò: «Ma come? Fallo entrare, è un grande poeta!»
Poi Pierpaolo è venuto a vivere nella mia stessa palazzina ed è subito diventato il mio grande amore. Quando scrivevo una poesia non chiedevo più consiglio a mio padre, ma mi precipitavo giù dalle scale per fargliela leggere.

Sarebbe interessante sentirvi parlare delle vostre rispettive esperienze psicoanalitiche.

Bellocchio: mi pare che da tanti anni si sappia quali siano le mie scelte di una ricerca psichiatrica, e non solo con Massimo Fagioli, che obiettivamente è diverso da Freud, al quale, invece, Bernardo è molto legato. Ma la scuola fagioliana ormai è conosciuta, per cui non c’è bisogno che io la difenda.
Bertolucci: poche settimane fa ho ricevuto il Premio Musatti all’università di Siena, l’anno scorso mi è stato conferito un altro premio a Londra. Penso che si sappia da tempo delle mie analisi, dal 1969 e con poche interruzioni: ho trascorso così tante ore sul lettino che, se fossero ore di volo, sarei pilota di jet!
Mi diceva oggi l’amico Beppe Sebaste (uno scrittore parmense, ndr) che dalla parola “restare” proviene “resistere”, per cui si potrebbe guardare a questo incontro sotto un punto di vista diverso: “Quelli che vanno e quelli che resistono”.

Mi sento molto vicino a voi: ho 21 anni e voi avete esordito molto giovani, provengo dalla provincia di Roma e studio cinema. Come facciamo noi giovani ad avvicinarci a voi Maestri, a ricevere come una carezza paterna?

Bertolucci: prima di tutto devi smettere di chiamarci maestri...!
Bellocchio: ieri, durante un dibattito, un giovane mi ha detto che lo Stato aiuta noi, mentre, invece, dovrebbe aiutare voi. Avevo la tua età quando Antonioni venne al Centro Sperimentale per presentare L’avventura. Io gli chiesi: «Come si fa a entrare nel mondo del cinema? Io non conosco nessuno! Lei mi darebbe il suo numero di telefono?» - qui mostrando tutto il mio provincialismo di allora - e lui, semplicemente, mi rispose: «No!». Questo rifiuto mi incitò e contribuì perché io mi aiutassi da me stesso, prendendomi dei rischi e imparando a resistere a tutti quello che veniva contro di me.
I pugni in tasca è stato realizzato con molti miei compagni del Centro Sperimentale, in tempi in cui le difficoltà erano superiori rispetto a quelle in cui oggi ci si può imbattere, perché ormai la tecnica si è molto diffusa; oggi, semmai, è difficile distribuire un film. Comunque bisogna saper fare da soli.


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