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FESTA DEL CINEMA DI ROMA - ROBERT DE NIRO INCONTRA IL PUBBLICO

Pubblicato il 22 ottobre 2006 da Marco Di Cesare


FESTA DEL CINEMA DI ROMA - ROBERT DE NIRO INCONTRA IL PUBBLICO

Mario Sesti, Vincenzo Mollica e il pubblico della Sala Sinopoli dell’Auditorium accolgono calorosamente uno dei più grandi attori nella storia del cinema.
Viene annunciato che saranno mostrate tre clip che De Niro stesso ha scelto fra le sue performance e dieci minuti, in anteprima mondiale, di The Good Shepherd, il film che sta realizzando come regista e interprete.

Dopo i saluti di rito sullo schermo appare il monologo allo specchio in Taxi Driver: la prova di aggressività.

Kubrick una volta disse che fare cinema significa seguire un attore con una macchina da presa e sperare che lui faccia qualcosa di straordinario. Potrebbe dirci qualcosa su questa celeberrima scena?

E’ passato così tanto tempo che temo di non ricordare. In parte è stata improvvisata, in parte era già stata scritta così: ma non ricordo cosa è stato improvvisato e cosa era sul copione.
Per me è imbarazzante rivedermi, soprattutto in quella scena.

Poco fa le è stato consegnato il passaporto italiano, lo desiderava da tempo: cosa significa ora, per lei, averlo?

E’ come un cerchio che si chiude, è un destino che si compie: la mia famiglia è di origini italiane, per me è come essere tornato a casa; mi fa molto piacere, non vedo l’ora di mostrarlo ai miei figli quando torno in America.

L’anno scorso a Roma c’è stata una mostra su suo padre, Robert Senior, un pittore; e anche sua madre era una pittrice. Quanto sono stati importanti per la sua formazione artistica?

Certamente mi hanno sostenuto e aiutato nella mia decisione, che non è mai stata valutata negativamente, diversamente da quanto potrebbe accadere in altri contesti, dove la recitazione viene sconsigliata perché non è considerata come un vero mestiere, ma sa dare solo delusioni.

(Scende il buio, ma la sala viene presto illuminata dal "sacrificio" di Jake La Motta per mano di Sugar Ray Robinson in Toro scatenato.)

Ormai il suo perfezionismo è diventato un mito: l’identificazione col personaggio, giunta addirittura fino a cambiare la forma del proprio corpo. Quanto crede che questa idea sia ancora fondamentale per il mestiere dell’attore? Alla Festa del Cinema c’è stata anche una retrospettiva sull’Actor’s Studio.

Beh, non dico di applicarlo sempre e comunque con questo grado di intensità, ma, se possibile, vale ancora.

Ha provato qualcosa di speciale nel fare Toro scatenato?

Dopo aver letto il libro, mandatomi in Nord Italia mentre giravo Novecento, chiamai Scorsese e gli dissi che, anche se non si trattava di un capolavoro, era comunque interessante, perché mostrava un grande cuore e una grande passione. Io ho fatto il film per motivi miei, Martin per i suoi: io ero interessato alla figura di un pugile che cade letteralmente a pezzi. A volte incontravo Jake a New York, lavorava in un locale: non stava fisicamente poi così male, ma di certo era soprappeso rispetto alla sua giovinezza di sportivo.

Lei ha girato C’era una volta in America proprio qui a Roma: potrebbe parlarci del suo rapporto con Leone? E poi, cosa faceva la sera...?

Quando io lavoro in un film, sono così impegnato che ho poco tempo per fare altro. Potevo andare via solo durante i fine settimana: una volta andai a Mosca, a volte tornavo a casa. Così è trascorso un anno. Leone cercava di capire come fare arrivare il mio personaggio a Manhattan. Tutti pensavano che Sergio non avrebbe mai finito il film. Così siamo andati a New York per cercare il modo giusto. Poi abbiamo girato quella scena nella metro, nei giorni in cui si stavano cominciando a designare i primi graffiti.

(L’ultima clip è tratta da Terapie e pallottole: è stato scelto un divertente dialogo con Billy Crystal, ennesimo pezzo di bravura di De Niro.)

Lei è stato prima un attore drammatico, poi ha recitato anche in delle commedie. Perché, secondo molti attori, far ridere è più difficile?

Non saprei, posso solo dire che mi sono divertito molto: si è trattato di un personaggio quasi caricaturale, al di là della realtà, e tutto è diventato più facile.
Comunque ci sono dei tocchi di umorismo anche nei film di Scorsese, ad esempio.
E gli italiani, poi, nella commedia sono insuperabili.

Lei ha lavorato con Jerry Lewis: ci potrebbe raccontare quell’incontro?

Siamo stati fortunati noi ad averlo: posso solo dire che è stato perfetto e straordinario.

Viene proiettato un montaggio di alcuni episodi di The Good Sheperd, interpretato, oltre che da De Niro, da Matt Damon, Angelina Jolie, Joe Pesci, William Hurt, John Turturro, Michael Gambon e tanti altri grandi nomi. In America verrà distribuito in dicembre, in Italia a febbraio.

Questo progetto è durato addirittura dieci anni, spesi in ricerche per indagare la genesi della CIA, nata dalla OSS durante la Guerra. Cosa la attraeva? E’ vero che ha raccolto le testimonianze di molte persone che hanno lavorato nella CIA?

Sì, sono sempre stato interessato a questa storia, ma ero sempre impegnato con altro. Poi Eric Roth ha scritto il libro; io lo ho incontrato nove anni fa. C’era un mio interesse anche per analizzare lo sviluppo dei servizi segreti negli anni successivi. Quindi mi sono accordato con Roth: se fossi riuscito a fare questo film (visto che ci vuole sempre tanta fortuna per portare a termine un film), allora avremmo realizzato una seconda parte, ambientata tra il 1961 e il 1989, dalla Baia dei Porci al crollo del Muro di Berlino.
E’ stato un film difficile da realizzare, dal punto di vista tecnico e per il montaggio.

Potrebbe parlarci del significato del suo film nel contesto odierno?

Non so se si possa parlare di un significato all’interno del contesto attuale: starà al pubblico decidere. Comunque è anche altro: un dramma familiare, per esempio.

Può dare consigli ai giovani aspiranti attori e, viste queste scene, anche ai giovani aspiranti registi?

Per essere degli attori bisogna semplicemente continuare a fare quello che si ama; se poi questo porta a guadagnare abbastanza per vivere... beh, questa diventa una grande fortuna.
La regia è un mestiere veramente impegnativo, tutti ti stanno addosso. Un film come The Good Sheperd sarebbe diventato impossibile, se gli attori non si fossero sacrificati, accettando guadagni inferiori a quelli consueti.
Venti anni fa mostrai un mio lavoro di regia a Kazan e lui mi disse: «Fallo adesso che ne hai voglia». E’ giusto impegnarsi al massimo per raggiungere un risultato.

Quanto deve a Martin Scorsese e quanto lui deve a lei?
Conosce la situazione dell’industria del cinema italiano? Pensa che ci possa essere un rimedio?

Il mio rapporto con Scorsese è straordinario, sono stato molto fortunato; vorrei che facessimo altri film insieme, prima che diventiamo troppo vecchi per reggerci in piedi! Per quanto riguarda la seconda parte della usa domanda, dovrebbe rispondere Martin.
Per quanto riguarda il cinema italiano cosa posso dire...? In bocca al lupo! E’ difficile fare un film. Non sempre un budget limitato può significare una minore difficoltà nel realizzarne uno. Ma quando ci sono altri che lo finanziano, è difficile che un film diventi un’opera d’arte. Un buon punto di partenza sarebbe cercare di coinvolgere attori importanti che attraggano finanziamenti. Comunque, in bocca al lupo!

Quale è il suo prossimo progetto?

Il mio sogno sarebbe lavorare in un altro film con Scorsese, ma entrambi siamo sempre più impegnati. Spero che possa essere possibile fare insieme un film su sceneggiatura di Eric Roth.

A quale suo film è maggiormente legato?

Direi certamente quelli con Scorsese, perché è un regista sempre stimolante e divertente, con il quale è possibile esplorare a fondo i personaggi: con lui le mete non erano sempre chiare, ma insieme abbiamo intrapreso tanti viaggi appassionanti.

Da regista, con quali criteri sceglie gli attori e come lavora con loro con il copione in mano?

Posso dire che per questo film ho dedicato molto tempo alla ricerca degli attori, anche quando non ero sicuro che si sarebbe potuto fare. E’ molto importante la fase del casting, sulla quale ho cominciato a lavorare sette anni fa; sono stato spesso molto fortunato, perché ho trovato proprio gli attori che inizialmente volevo per le parti. Una volta trovato l’attore giusto, diventa più facile instaurare un rapporto quasi di complicità, grazie al quale si possono lasciare le cose accennate, senza essere costretti a dire tutto.
Da attore, non posso dire che lavorare con un regista dia più problemi, però se si trova un regista come Scorsese, che rispetta il lavoro degli attori, per noi diventa tutto più facile. E’ giusto lasciare loro una certa libertà e, dopo avere visto e ascoltato, si deve inquadrare questa interpretazione all’interno della storia nel suo insieme: e questo l’attore lo sa, ma bisogna dirglielo ogni volta.


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