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FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - JE M’APPELLE ELISABETH

Pubblicato il 16 ottobre 2006 da Antonio Valerio Spera


FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - JE M'APPELLE ELISABETH

Due bambine davanti ad una vecchia villa in un bosco. La porta si apre da sola e le piccole scappano terrorizzate. Questo è il prologo di Je M’Appelle Elisabeth, che introduce perfettamente alle tematiche della pellicola: l’infanzia, la paura, i fantasmi. Questi ultimi ovviamente non esistono ma per Elisabeth, piccola figlia del direttore di una casa di cura, sono causa di paure e insicurezze. La storia è vista attraverso gli occhi della bambina, chiamata da tutti col diminutivo Betty. La sua famiglia vive un momento particolare: la sorella maggiore è andata in collegio, la madre lascia la casa per cominciare una nuova storia, il padre non riesce ad accettare la separazione. Betty nel pieno della sua infanzia rimane da sola, chiusa nella normalità e nelle abitudini del quotidiano. Non riuscendo a trovare appiglio in nessuno, la bambina affronta le sue paure e reagisce alla situazione. E’ lei che diventa l’appoggio emotivo per gli altri, sentendo gli sfoghi del padre e aiutando un malato di mente scappato dalla casa di cura.
Il regista Jean-Marie Ameris dirige con leggerezza. Il suo tocco delicato sfiora i sentimenti dei personaggi. Le paure di Betty sono reali. Ma Ameris non vuole creare lo stesso sentimento nello spettatore, il suo obiettivo è solo rappresentarlo. L’infanzia è raccontata come il periodo in cui l’ingenuità è solo un’apparenza, una maschera di facciata che occlude un senso di responsabilità crescente. Ovviamente Betty ne è l’emblema, ed è quel personaggio che sapendo distinguere il normale dal diverso sa scegliere cosa sia più giusto. E sceglie il diverso. Ciò che prima le faceva paura (come i malati di mente della clinica del padre), infatti, diventa il traguardo a cui avvicinarsi. Venendo a mancare la sicurezza familiare, Betty comincia dunque a credere di poter ritrovare ciò che ha perso (gli affetti, l’amore, i rapporti amicali) in ciò che rifuggeva come “strano”, pauroso.
Ameris quindi realizza una pellicola in cui sono le parole e le azioni dei personaggi a risultare fondamentali, i loro sguardi, a volte il loro mutismo, rimanendo in uno stile che non va mai oltre al necessario per la narrazione. Il regista francese inserisce perfettamente i personaggi nei luoghi. Questi ultimi sono adeguati per lo svolgimento della storia. Infatti il bosco che circonda la casa di Betty, il buio pesto della notte, la casa di cura del padre sono gli elementi giusti per alimentare le paure infantili. Ameris viaggia nella memoria e racconta gli spazi mentali della giovinezza, in cui le bugie sono sempre dette a fin di bene e in cui la realtà è vista da un’ottica distorta ma non sbagliata.
Ciò che attrae in Je M’Appelle Elisabeth è la capacità di affrontare un tale racconto senza cadere nella gabbia della favola per bambini. Infatti è un film di paesaggi, di amori, di amicizia sentita, oltre che di paure. Il film è costruito su un climax che fa decollare la narrazione sino al finale in cui tutto si chiude nella “casa dei fantasmi” dell’inizio, luogo scelto da Betty come rifugio, segno di una maturazione che è appena cominciata.
Je M’Appelle Elisabeth si basa su un racconto originale, in cui niente è scontato e tutto è costruito con la giusta leggerezza e con sapiente abilità. Ad arricchire il tutto, la splendida interpretazione della piccola Alba-Gaia Bellugi: intensa, matura, completa, garbata. Così come la stessa pellicola, che è l’ennesima sorpresa della sezione “Alice nella Città”, anzi, fino ad ora, il suo film migliore.

(Je M’Appelle Elisabeth) Regia: Jean-Pierre Ameris; soggetto e sceneggiatura:Jean-Pierre Améris, Guillaume Laurant; interpreti:Alba-Gaia Kraghede Bellugi (Betty), Stéphane Freisa (Régis il padre), Maria de Medeiros (Mado la madre), Yolande Moreau (Rose), Benjamin Ramon (Yvon); fotografia: Stéphane Fontaine; montaggio: Laurence Briaud; musica: Philippe Sarde; produzione: Pyramide Productions; origine: Francia; durata: 89’


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