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Halley

Pubblicato il 24 giugno 2013 da Giovanna Branca

VOTO:

Halley

C’è del buono nei cieli blu e nei fiori, ma un’altra forzaun dolore ed una decomposizione selvaggi accompagna anch’essa tutte le cose”. Parole di David Lynch, che potrebbero riassumere tutta la sua poetica. Ma se il procedimento del regista americano è spesso quello di partire dai cieli blu e dai fiori per arrivare a mostrarne il “lato oscuro” (il verme che si dibatte nel becco dell’uccellino di Velluto blu) Halley del messicano Sebastian Hofmann sembra, memore delle parole del maestro, ribaltarne la prospettiva.
Si parte dalla putrefazione, quella letterale, quella del corpo di un uomo malato – o forse già morto – Beto, solo con il suo dolore in una città senza nome. Un film fatto di primissimi piani: una mosca sotto vetro, le piaghe del corpo che si dissolve, gli oggetti che lucida maniacalmente. L’angoscia e l’isolamento di Beto sono letteralmente la prospettiva dell’intero film, quasi interamente fatto di finte soggettive giocate sull’alternanza tra a fuoco/fuori fuoco, tutte riconducibili al punto di vista allucinato e ormai esterno al mondo del protagonista quasi esclusivo di questo lavoro.
Beto fa la guardia di sicurezza in una palestra, frequenta dei ritrovi religiosi per persone con malattie gravi o terminali – in cui la spiritualità lascia il posto allo squallore e all’avidità – cerca di prendersi cura di un corpo ormai nel pieno del decadimento biologico ma ancora attaccato ad un’inspiegabile desiderio (o condanna) di stare al mondo.
Deliberatamente stomachevoli, le scelte registiche di Hofmann raccontano senza pietà la routine quotidiana di uno zombie, inducendo nello spettatore un disgusto che quasi allontana ogni possibilità di empatizzare con il suo angoscioso personaggio. Un memento mori di gusto medievale (e dalla sensibilità tipicamente messicana, pervasa dalla Santa Muerte), Beto ci fa orrore perché, pur se ancora vivo “fu quel che noi siamo ed è quel che noi saremo”.
Nella notte passata con la direttrice della palestra dove lavora Beto trova l’ultimo sprazzo di vita, e nel dialogo con lei sulla cometa Halley che dà il titolo al film forse comprende il segreto della piccolezza delle cose umane di fronte all’indifferenza maestosa del cosmo. Ed è così pronto a passare dall’altro lato, che se per alcuni è questione di metafisica può anche trattarsi di cogliere in un colpo d’occhio – un’inquadratura – la bellezza del mare tra i ghiacci. O magari, anche più semplicemente, un cielo blu e dei fiori senza più alcun “dolore selvaggio”.


CAST & CREDITS

(Halley) Regia: Sebastiàn Hofmann; sceneggiatura: Sebastiàn Hofmann, Julio Chavezmontes; fotografia: Matìas Penachino; montaggio: Sebastiàn Hofmann; musica: Uriel Esquenazi; interpreti: Alberto Trujillo (Beto), Lourdes Trueba (Silvia); produzione: Piano, Mantarraya Producciones; origine: Messico, 2013; durata: 85’.


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