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Hard to be a God

Pubblicato il 14 novembre 2013 da Giammario Di Risio

VOTO:

Hard to be a God

Per la cultura occidentale, uno dei momenti fondamentali, in cui si prende il concetto di divinità e, ripulendolo di astrazione, lo si affianca alla natura umana, è la realizzazione del Tondo con Cristo del XII secolo. Qui una figura compressa e rozza, dalla fisicità massiccia e lo sguardo terrificante, si prende sulle spalle i peccati del mondo raccontandoci un’umanità fatta di dolore e crudeltà. La bellezza classica dell’arte non si palesa viceversa si apre il campo a figure disadorne, primordiali, gestite da una fisicità goffa e pesante. Un mondo in continua sproporzione, che ha scelto il Medioevo come stazione di partenza.

Pianeta Arkanar. Un gruppo di terrestri, capitanati da Don Rumata, raggiunge un luogo, abitato anch’esso da umanoidi, in cui il tempo sembra essersi fermato al Medioevo. Fango e putredine, liquami stagnanti e vapori nauseabondi, comprimono la mission della spedizione: riportare un po’ di luce e progresso in un luogo dove i necessari pensatori, intellettuali sono continuamente torturati e impiccati.

La storia, ispirata all’omonimo libro di Arkady e Boris Strugatsky, è ovviamente un pretesto per sciorinare la grande estetica del maestro russo Alekseji Yurevic German. Un quadro traghettato dal bianco e nero, che concede plasticità ai corpi, giocando continuamente su piani prospettici. In uno spazio governato dalla violenza e dall’assenza totale di un vero e proprio arco narrativo, l’immagine che subisce lo spettatore è piena di elementi visivi che lo aggrediscono. La m.d.p., che si palesa sempre con lunghi piani sequenza, dettagli e riprese a mano, “scende” in un mondo da catacomba, scuro e falcidiato da esseri in continuo stadio luciferino. La costruzione dell’immagine richiama il ciclo fiammingo, con espressioni e fisionomie che si rifanno alle opere di Hieronymus Bosch, Martin Schongauer e Matthias Grünewald. Don Rumata governa questo mondo, che ha perso ogni forma di bellezza, tentando di affiancare alla violenza, caratterizzata da orecchie mozzate, budella che fuoriescono dall’ addome, teste sgozzate che rotolano nel fango, escrementi che marciscono sui volti, un minimo di amore: da qui un uccellino che vola via dalla sua mano, le reiterate carezze agli schiavi e uno sguardo in macchina mai orrifico, viceversa appassionato.

Come il Tondo con Cristo respinge una rappresentazione astratta del divino rivoluzionando l’arte medievale, così l’opera di German, a cui per la prima volta una kermesse cinematografica consegna un premio alla carriera postumo, sviluppa un iperrealismo fatto di corpi e fisicità che diventano la metafora dei peccati del mondo. Un grande film che deborda continuamente e che mette nelle condizioni lo spettatore, per tre ore, di acciuffare destinazione simbolica, possanza estetica e monito severo per ciò che siamo e saremo.


CAST & CREDITS

(Hard to be a God); Regia: Aleksej Jurevič German sceneggiatura: Aleksej Jurevič German, Svetlana Carmalita fotografia: Vladimir Ilin, Yuri Klimenko; interpreti: Leonid Yarmolnik, Dmitri Vladimirov, Laura Lauri, Aleksandr Ilyn, Yuriy Tsurilo, Oleg Botin, Yevgeni Gerchakov; produzione: Lenfilm Studio; origine: Repubblica Ceca, 2013; durata: 170’;


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