Honeymoons - Venezia 66 - Giornate degli autori

Esistono conflitti dalle cicatrici insanabili, sfregi apparentemente invisibili, sbiaditi, come i timbri su di un passaporto, eppure ancora infetti, purulenti. Le lotte che portarono alla dissoluzione della repubblica socialista federale della Jugoslavia fanno sicuramente parte di questa categoria. Le guerre, susseguitesi senza soluzione di continuità dal 1991, hanno infatti lasciato lungo tutto il territorio strascichi fratricidi, odio e violenza. La pellicola di Goran Paskaljevic, Honeymoons, mostra proprio, fra le pieghe di due piccole storie familiari, queste cicatrici. Utilizzando al massimo i colori, le musiche, gli umori slavi ed albanesi il regista dipinge un affresco disperato di una zona da troppo tempo devastata dalle guerre.
Le lune di miele di due giovani coppie, una albanese, l’altra serba, sono infatti il pretesto per raccontare di sofferti nazionalismi, di identità contrastate, di paure e ignoranza. Nati o cresciuti vicino al confine del Kosovo le coppie di Honeymoons rappresentano l’ultimo confine di questa decennale guerra. Lo stesso scontro che, visto dell’una o dall’altra sponda, assume connotati e caratteristiche differenti. Una scintilla, un pretesto, un singolo attentato e gli antichi rancori riemergono. Così Marko, giovane violoncellista di Belgrado, viene aggredito, picchiato, offeso per aver semplicemente messo in dubbio la paternità dell’attentato. Un serbo, per un serbo, non commette certi atti. Basta passare per pochi chilometri il confine però per ritrovarsi dall’altra parte di uno specchio. In Albania Nik, un ragazzo che ha perso il fratello nel disperato tentativo di raggiungere le coste italiane, viene deriso alla sola idea che i mandanti del terribile attentato di Pristina possano essere albanesi.
Non c’è posto, in un luogo così, per la speranza, per la diplomazia, per il dialogo. Le colpe dei padri ricadono sui figli in un circolo vizioso senza fine. La triste vicenda del padre di Vera, moglie di Marko, ne è l’emblema. Il suo odio verso il fratello, esponente vittorioso della fazione politica a lui opposta, è incontenibile. Nulla, ne le lacrime della figlia, ne la sua stessa morte imminente, può placare la sua ira. L’unica soluzione per le due giovani coppie è dunque la fuga, l’emigrazione. Ma nella corsa verso le coste italiane o il confine ungherese i ragazzi portano con loro il segno del peccato originale. Il timbro sul passaporto, l’onta infamante della provincia autonoma indipendentista del Kosovo. Marko e Nik, per nascita o per lavoro, hanno infatti sul loro visto il marchio della piccola repubblica autoproclamatasi indipendente. Tanto basta per esser reputati indesiderati. Appare ironico il loro destino. La matrice del contendere dei loro popoli, l’elemento che li aveva messi gli uni contro gli altri diviene così il fattore che li accomuna. Per le polizie di confine non passa alcuna differenza fra Marko e Nik, fra albanesi e serbi. Per grettezza, per ignoranza o per semplice abnegazione al proprio dovere gli agenti li considerano alla stessa stregua pericolosi immigranti, criminali o addirittura, terroristi. L’infezione provocata dalla guerra dilaga, lasciando i confini dei singoli stati, dei popoli coinvolti nel conflitto, per cicatrici che forse non si rimargineranno mai.
(Medeni mesec); Regia: Goran Paskaljevic ; sceneggiatura: Goran Paskaljevic, Genc Permeti ; fotografia: Milan Spasic; montaggio: Petar Putnikovic; musica: Rade Krstic ; interpreti: Nebojsa Milovanovic, Jelena Trkulja, Jozef Shiroka, Mirela Naska, Bujar Lako ; produzione: Nova Film/Ska-Ndal/Beograd Film ; origine: Serbia,Albania,Italia 2009; durata: 95’
