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Il Falsario – Operazione Bernhard

Pubblicato il 1 febbraio 2008 da Marco Di Cesare


Il Falsario – Operazione Bernhard

Quasi duole dover accostare il profano al Sacro: ma il Caso ha voluto che la scorsa domenica, quel 27 gennaio che sempre segnerà il Giorno della Memoria della Shoah, fosse preceduta da un banale martedì sulla West Coast dell’industria cinematografica, la quale ha annunciato che un non troppo piccolo film austro-tedesco sui campi di concentramento nazisti concorrerà per l’Oscar 2008 come miglior film in lingua non inglese.
Ed è stato presentato anche alla scorsa Berlinale, questo Il falsario – Operazione Bernhard, opera che narra della vicenda misconosciuta del gruppo di prigionieri ebrei che furono obbligati dal Reich ad aiutarlo nel cercare di vincere la Guerra, inondando i mercati di sterline false, carta straccia realizzata talmente ad arte da poter ingannare chiunque, Banca d’Inghilterra compresa. E la storia vera del maestro falsario, l’ebreo-russo Smolianoff, è stata drammatizzata dal regista e sceneggiatore austriaco Stefan Ruzowitzky, sulla base del libro The Devil’s Workshop (che dovrebbe essere pubblicato anche in italiano) di Adolf Burger, novantenne tipografo che ha partecipato alla ’truffa’ e rimane, oggi, uno dei due depositari ancora in vita di quel particolare episodio storico, grottesco e tragico come solo la realtà può essere, soprattutto quando viene riletta dall’occhio onnicomprensivo del cinema.
Salomon Sorowitsch (Karl Markovics) è il miglior falsario nell’Europa degli anni ’30, ebreo-russo ed artista mancato che utilizza l’arte nella sua utilità più proficua, così rispondendo alla fondamentale domanda «Perché fare soldi con l’arte quando si possono fare soldi fabbricando soldi?». Ma non solo il denaro serve per creare altro denaro: perché anche i passaporti si possono falsificare, ad esempio. E proprio un passaporto per l’Argentina e la donna tedesca che glielo ha commissionato, saranno i prodromi di una notte d’eros, talmente prolungata da costare caro al falsario, arrestato all’alba dall’ispettore della Gestapo Friedrich Herzog (Devid Striesow). Salomon - ’Sally’ per gli amici - verrà imprigionato a Mathausen, dove sopravviverà grazie alle doti artistiche e al carattere che sembra essersi formato nell’oscurità dei bassifondi, rabbia di sopravvivere che è adatta a contrastare la cieca e bruta banalità del male: ritraendo gli ufficiali di turno e ricevendone, in cambio, la possibilità di mangiare, assieme al disprezzo verso la sua sudditanza e doppiezza, connaturate all’essenza ebraica. Pochi anni trascorrono e Sorowitsch viene trasferito nel campo di Sachsenhausen, dove le doti sue e di altri prigionieri ebrei verranno utilizzate dal suo ammiratore Friedrich Herzog e dal Reich per cercare di vincere una guerra ormai già persa. Qui il dilemma morale si farà sempre più pressante per Sally e per alcuni dei suoi compagni di sventura: vendere l’anima al diavolo - ultima, flebile, speranza di vita - oppure cercare di sabotare l’infernale macchina nazista che tutto fagocita?
Negli ultimi anni vari cineasti dell’area germanica si sono interrogati sul lontano (?) passato nazista della Germania (da La caduta a La rosa bianca, da Rosenstrasse al Mein Führer di Dani Levy), così come su quello più vicino legato al comunismo (lo schematico e misero Le vite degli altri, tanto sopravvalutato tra Italia e West Coast), per fare in modo che il rimosso non venga definitivamente dimenticato. E questo è il desiderio anche de Il falsario, film che sa colpire le coscienze, mettendo in scena un conflitto tra interiorità che diventa anche uno scontro di corpi: e la fisicità è sempre presente lungo la narrazione, così come la materialità dei mezzi di produzione cui la prima è asservita, in quanto estrapolazione dell’alienazione di essere diventati numeri, massimo annichilimento marxiano, prima della definitiva morte; e quei corpi ’pasciuti’ di chi vive nella gabbia d’oro, sono il campo d’azione preferito dalla mdp, che tiene bene a nascondere fino quasi all’ultimo il fuori campo estremo, mai visibile, ma sempre presente, incombente quasi, abitato da chi muore giorno dopo giorno, spossato dalla barbarie quotidiana; fuori campo che irrompe solo nel finale, contaminando la no man’s land di chi ha è stato un internato diverso dagli altri. E il Sorowitsch interpretato da un grande Karl Markovics (caratterista diventato famoso grazie a Il commissario Rex) nella riscrittura di Ruzowitzky diventa un eroe-antieroe, guida e salvezza del gruppo, ma personalità ambigua, nella coscienza lui stesso salvato dalla perseveranza del sabotatore Adolf Burger (August Diehl), giovane e idealista, tanto da mettere a repentaglio la vita sua e di chi gli è accanto, sacrificio forse (non) indispensabile per vincere la guerra. Ma l’intero film vive sotto il segno dell’obiettività e di una distanza partecipe verso le miserie umane, tanto che anche i nazisti appaiono come uomini che, però, approfittano della loro posizione, per lasciarsi andare agli istinti più sadici: perché solo La banalità del male deciderà chi dovrà essere sommerso e chi potrà salvarsi. E massimo esempio di ambiguità rimane Friedrich Herzog (nella realtà Bernhard Krüger, da cui l’operazione ha tratto il nome): salvatore e carnefice, seduttore mellifluo, colto e vile, criminale preoccupato per il futuro dei suoi figli e anello di una catena, come chiunque altro.
Stefan Ruzowitzky (autore, ricordiamolo, anche degli interessanti horror Anatomy 1 e 2 nei primi anni Duemila) ha scelto di utilizzare toni avvincenti per la narrazione, preferendo una messinscena comunque scarna. E ha puntato sulla contrapposizione, assecondando schemi che, almeno, non risultano così disdicevoli da inficiare il portato del film. E la dualità torna anche visivamente. Perché la calda calligrafia della cornice post-guerra è adatta a mostrare la falsità del nuovo contesto, più che una ritrovata pace, come se l’unica realtà, quella da cui si proviene, rimanga quella dai toni grigiasti e sgranati di Sachsenhausen, espressione massima e atroce de Il lavoro rende liberi, simbolo del totale asservimento dell’uomo, nella mente e nel corpo.

Conferenza Stampa


CAST & CREDITS

(Die Fälscher) Regia e sceneggiatura: Stefan Ruzowitzky; soggetto: tratto dal libro The Devil’s Workshop di Adolf Burger; fotografia: Benedict Neuenfels; montaggio: Britta Nahler; musica: Marius Ruhland; scenografia: Isidor Wimmer; costumi: Nicole Fischnaller; interpreti: Karl Markovics (Salomon Sorowitsch), August Diehl (Adolf Burger), Devid Striesow (Friedrich Herzog), Martin Brambach (Holst), August Zirner (Dottor Klinger); produzione: Aichholzer Filmproduktion, Magnolia Filmproduktion, Babelsberg Film Gmbh, Studio Babelsberg Motion Pictures Gmbh, Babelsberg Film Zdf; distribuzione: Lady Film; origine: Austria e Germania 2007; durata: 98’.


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