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Intervista a Muta Imago

Pubblicato il 5 maggio 2008 da Luigi Coluccio


Intervista a Muta Imago

Cubi leggeri come l’aria, come dondoli per dei corpi appena definiti.
Acqua da cui nascere, a cui tornare.
Abissi della memoria che sono, paurosamente, abissi dello spazio profondo.

Si nutre di immagini suadenti e di storie e non-storie il lavoro della compagnia romana Muta Imago, da noi recentemente incontrata al Teatro Palladium di Roma e all’ultimo appuntamento di Uovo critico, compagnia composta da Claudia Sorace -regista, diplomata alla Scuola d’Arte Drammatica "Paolo Grassi" di Milano, già assistente di Gabriele Vacis e che ha diretto Laura Curino in Una stanza tutta per me (2005)-, Riccardo Fazi -regista e drammaturgo, assistente alla regia di Caden Manson del Big Art Group per House of no more e Dead set 3- e Massimo Troncanetti -scenografo, già autore di opere video e installazioni, è assistente dell’artista visivo Alfredo Pirri.
Gruppo tra i più interessanti dell’attuale panorama teatrale, i Muta Imago portano avanti un consapevole e pressante lavoro che media tra la scena e ciò che gli sta dietro, prima -sia questi una storia, una teoria, una visione. E sono proprio la consapevolezza della loro prassi e della loro teoresi, e l’urgenza che in modo evidente trasmettono per il fare teatro, che donano a tutte le loro opere un visibile, sicuro, spessore. Dal lontano Grano (2004) all’ultimo Lev, e passando per Hong Kong al quarantesimo chilometro (2006), comeacqua (2006), Don Giovanni (looking for) (2006) e (a + b)³ (2006), il loro è un continuo ri-creare, ri-dare, un’esatta purezza di sguardo, senso, alla storia-visione che li attanaglia e che, indubbiamente, avrà anche noi...

Partiamo innanzitutto dalla nascita -tema che sembra essere molto caro per voi: comeacqua e Lev, quest’ ultimo legato ad una continua rimodulazione di tempo e spazio esteriori, il che equivale ad una continua nascita, hanno dentro di loro il tema forte, appunto, dell’origine, del principio.
Come ha inizio la storia dei Muta Imago? Partiamo dal punto di vista personale per poi approdare a quello, estremamente conflittuale, artistico –viste anche le vostre più disparate provenienze.

Claudia Sorace: Noi ci conosciamo da sempre. Noi due stavamo al liceo assieme, nello stesso banco. Riccardo l’abbiamo conosciuto l’ultimo anno di liceo. Poi ci siamo allontanati per studiare, per crescere, è questa è stata una cosa molto importante perché non è solo l’amicizia quello che sta alla base di un lavoro comune. Io sono andata a Milano e poi a Torino, Riccardo ha viaggiato un po’ per tutto il mondo e Massimo ha lavorato con Alfredo Pirri. Muta Imago nasce da questa comunanza, comunanza che forse poi è diventata comunanza di gusto: un modo di vedere le cose in maniera simile, vicina. All’interno, poi, ci siamo ritagliati delle competenze differenti, ma in realtà è tutto molto vicino. Personalmente, la spinta che mi ha portato a formare una compagnia è stata la voglia di dire qualcosa, di costruire il tuo. E tutto ciò ti porta a trovare le persone giuste con cui condividere questo percorso.

Massimo Troncanetti: Mentre Claudia era a Milano e a Torino, io e Riccardo stavamo qui a Roma. All’inizio lavoravamo nell’ambito installativo, nel campo della video art, realizzando qualche piccola mostra. Poi prendemmo coraggio per affrontare l’argomento teatrale. Lo spettacolo in cui ci siamo testati tutti assieme è stato Grano (2004). Poi, appena Claudia si è ri-trasferita a Roma, abbiamo iniziato a lavorare a pieno regime e il primo spettacolo con questo nuovo “approccio” è stato Hong Kong al quarantesimo chilometro.

Fin dall’inizio, al di là delle diverse estrazioni estetiche comunque molto forti, i lavori della compagnia sono cresciuti e si sono avviluppati attorno alla visione, all’immagine, alla macchina teatrale. E così continua ad essere.

M.T. In realtà possediamo due anime sempre in dialogo tra di loro: la costruzione dell’immagine e la parte drammaturgica. Non credo si possa fare una distinzione tra i due ambiti: l’immagine può essere considerata il mezzo con cui cerchiamo di creare la lingua apposita con cui poter affrontate un determinato tema. Ed è ovvio che richiede un “tempo di conoscenza” diverso perché è una lingua che devi inventarti. Però è fortemente legata allo sviluppo drammaturgico: tutta la costruzione dell’immagine è al servizio di una narrazione e di una costruzione scenica che sia compatta da tutti i punti di vista. Ad esempio, il lavoro sull’audio è anche esso un lavoro molto drammaturgico. Una delle difficoltà, che è anche un confronto appassionante, è quella di non rimanere legati all’immagine pura e semplice.

C.S. L’immagine è un risultato. L’immagine deve essere un risultato. Quando iniziamo a lavorare su di un progetto, l’idea principale, il tema, vengono spesso affrontati come “macchina teatrale”, poiché la macchina scenica è quello che ci interessa. Se devo raccontare la storia di un uomo con un proiettile in testa che continua a perdere la memoria penso alla farina che cancella, a delle luci che si muovono, a delle lastre fluttuanti. L’immagine non è il punto di partenza ma il risultato finale di una ricerca. Per questo son diversi i vari spettacoli tra di loro. Questo è il valore che rivendichiamo.

L’immagine mentale nasce, si riverbera, si plasma attorno sé stessa. Una sola può generarne infinite altre. Sarebbe interessante istituire un parallelo tra ciò e i vostri spettacoli, visto che dalle ceneri di Hong Kong al quarantesimo chilometro è nato in qualche modo comeacqua, e Lev si potrebbe considerare una costola di (a + b)³.

C.S. E (a + b)³ è una scena di Don Giovanni (looking for). Il lavoro è in continuo movimento. Seguendo il lavoro stesso, anche a livello solo di materiali scenici, qualche cosa ti porta al lavoro successivo e a quello ancora dopo. E’ tutto in movimento e tutto si influenza. Ed è importante ascoltare ciò. Per questo noi cerchiamo di lavorare consequenzialmente. Seguendo un filo iniziale scavi sempre di più in quello che fai.

M.T. C’è un procedimento di cui non hai, almeno all’inizio, piena coscienza. Alla fine di Don Giovanni (looking for) abbiamo capito che c’erano delle potenzialità rispetto a quel cubo, rispetto a quei pochi minuti. Però non capivamo in che senso: era solo una flebile percezione. Abbiamo lavorato su quel determinato momento in termini di costruzione della macchina scenica, di inserimento della drammaturgia. Il rapporto, poi, tra comeacqua e Hong Kong al quarantesimo chilometro è piuttosto una conseguenza in opposizione. Da un lavoro molto duro, inteso, come è stato Hong Kong al quarantesimo chilometro, per l’esigenza di rappresentare entro una settimana un nuovo spettacolo all’interno della terza Giornata mondiale dell’acqua, è venuto fuori un qualcosa che non era mai apparso durante i mesi di lavoro dedicati al primo. Forse è stato anche uno spettacolo liberatorio. Dopo il viscerale iniziale ci abbiam messo circa un anno per fargli avere una sua solidità. Anche se continua ad evolversi. Seguire la storia che ogni spettacolo ti impone, seguire quello che lui ti dice di aver bisogno: questa è una delle cose più affascinanti che ti può accadere.

Quindi ogni spettacolo nasce da una spinta propulsiva, viscerale, iniziale, che vi da comunque poco tempo per rifinirlo, per “chiuderlo”. E poi si passa a prove che durano magari un anno proprio per riuscire a raggiungere quella solidità prima accennata.

C.S. Non è sempre così. Questo è successo per comeacqua. Con (a + b)³ e Lev questo non è capitato. Per Lev, soprattutto, c’è stato un progetto. E’ stata la prima volta che, oltre a partire da un testo pre-esistente, abbiamo avviato una progettazione dello spettacolo. Ma ciò non deve divenire sistematico.

Comunque anche Lev, conformemente con quanto abbiam visto ad Uovo critico, è ancora uno spettacolo aperto. State continuando a lavorarci per limare, per variare alcune cose. E magari sarà anche introdotta la parola.

C.S. Dopo il Premio Dante Cappelletti, dove lo spettacolo è stato presentato in una sua forma ancora non ben definita, le possibili strade da percorrere si sono assottigliate. La parola è svanita. E’ ciò è la diretta conseguenza del tema, della ricerca condotta sulla spettacolo: non puoi affrontare anche la parola in un’opera in cui già si parla di un uomo che continua a perdere la memoria. Diventerebbe tutto superficiale, disperso. La parola, come l’immagine, sono delle dirette conseguenze di un processo. Il punto di partenza non deve essere questo, non puoi porre il problema in questo modo. Se non si parte da un principio di necessità diventa tutto finto, posticcio.

La parola, come messa in campo ad Uovo critico, era strettamente collegata, secondo quanto detto da Graziano Graziani, con l’ “extra-testualità” a cui il critico accede grazie alla rassegna stampa, alla conoscenza della compagnia, al dialogo privilegiato con gli attori e il regista. Cose che il pubblico assolutamente non possiede.

C.S Anche questo è un problema. E’ una delle cose che allontana il pubblico dal teatro. Il critico è giusto che si ritrovi degli strumenti in più, il pubblico deve avere lo spettacolo.

M.T. Graziano Graziani diceva che la parola umanizzava, rendeva più vicino a noi Lev. Mentre programmavamo di ri-lavorare sullo spettacolo abbiamo avvertito che questa mancanza era reale, però non attribuibile all’assenza della parola. La via per umanizzare Lev non è la parola ma un discorso scenico, drammaturgico, da applicare ad un progetto che è comunque aperto.

Alcuni degli interrogativi che sono emersi durante l’appuntamento di Uovo critico che vi ha visti protagonisti vertevano proprio sul discorso dell’immagine, della visione. E sia Nico Garrone che Antonio Audino hanno cercato, per così dire, di tracciare una sorta di “albero genealogico” proprio del vostro modo di fare teatro, andando ad evocare il teatro-immagine, La Gaia Scienza, Fanny&Alexander, la Socìetas Raffaello Sanzio... Avvertite dei contatti, più o meno consapevoli, con questi gruppi e movimenti, oppure si tratta di accostamenti validi solo in un’ottica più ampia di storia del teatro?

C.S. Io non ho vissuto questi riferimenti di cui parlavano, non li ho visti a teatro. Non può esserci una continuità consapevole. Credo però che ci siano degli elementi molto più irrazionali, casuali, quasi dei ritorni. Ed è giusto, quindi, che si tracci un percorso storico.

Eppure, nonostante tutto questo insistere sull’elemento visivo, estetico, voi rimanete fortemente ancoranti ad un concetto apparentemente più tradizionale come è quello della storia. Chiarificatore è, a questo punto, ciò che avete detto proprio nella serata di Uovo critico, e cioè che <<Oggi, se non partissimo dalla storia, non riusciremmo ad approdare a nulla>>; e anche <<Noi stiamo cercando la parola>>.

M.T. La storia è sempre stato un elemento importantissimo per tutti e tre. Anche per raccontare non quella storia. Anche per questo negli spettacoli precedenti la trama aveva quasi un modello archetipo, lineare. Lev da questo punto di vista è già più sofisticato. Mentre la storia è uno degli elementi che sentiamo di usare, che tentiamo di metter dentro, per la parola, almeno personalmente, dobbiamo ancora arrivare ad una necessità. Come per la scena, la drammaturgia, forse arriveremo anche ad essa.

C.S. Si aspetta che arrivi il bisogno.

M.T. E’ anche il lavoro che seleziona cosa va bene e cosa no. Durante il percorso che ha portato a Lev ci siamo incaponiti sul discorso della parola: poi vedi le prove, vedi quello che viene fuori, ed è il lavoro stesso che ti dice quello di cui ha bisogno.

Sembra che ci sia una perfetta equazione tra la storia e lo spettacolo che alla fine sarà messo in scena. Don Giovanni (looking for) doveva avere quella forma, comeacqua doveva essere così, Lev doveva divenire quello che poi è stato. Allora, e permettetemi forse un poco sicuro salto in avanti, il prossimo spettacolo, a seconda della storia che sarà, potrebbe addirittura essere l’esatto opposto di quanto visto fino ad adesso: attori che dialogano tra di loro, narratività, solida drammaturgia basata su inizio-sviluppo-conclusione...

C.S. Potrebbe benissimo essere così. Anzi, sarebbe bello se ciò succedesse. Devi cercare dove non conosci. Da questo punto di vista non mi pongo nessun limite.

M.T. Non c’è nessun manifesto contro la parola. Siamo curiosi di arrivare a quel momento e di vedere l’uso che se ne farà.

La partecipazione ad Uovo critico non ha fatto altro che confermare la vostra adesione e coinvolgimento in un circuito che sta, consapevolmente, lontano dalla cerchia dei teatri riconosciuti e "rispettabili". Dalla Rampa Prenestina a ZTL-pro, dal Kilowatt Festival ad Uovo critico, continuate incessantemente a fare teatro in luoghi e situazioni che hanno nell’associazionismo, nella stretta relazione con il pubblico, nell’antagonismo anche politico e non solo artistico, nell’indipendenza, purtroppo, economica, la loro cifra più importante.

C.S. Credo che la cosa sia reciproca. Ci invitano questi luoghi, questi luoghi ci danno spazio e noi, a nostra volta, li frequentiamo. Non è una presa di posizione a priori, ideologica: sarebbe bello che fossero istituzionali, sarebbe bello che il Kilowatt Festival diventasse importante visto che si preoccupa di trovare un nuovo rapporto con il pubblico.

M.T. Non è una scelta di militanza. C’è una difficoltà per la nostra generazione ad entrare nel circuito istituzionale, a confrontarsi con esso. Sarebbe importante anche dal punto di vista professionale: esci verso un mondo che parla una lingua differente rispetto alla tua, e ciò ti crea nuove necessità di comunicazione, creazione di nuovi mezzi espressivi.

Indirizzi teorico/performativi da attuare, praticare, in questo momento particolare per il teatro.

C.S. Dal punto di vista artistico mi sento di consigliare di seguire ognuno il proprio personale percorso: con costanza, con disciplina.
Dal punto di vista più sociale noi che facciamo teatro dobbiamo lottare contro il nostro essere “nicchia”. Dobbiamo allargarci il più possibile, senza snaturarci. Cercare il confronto il pubblico. Penso ci sia un gran bisogno dello spettacolo dal vivo, del teatro come luogo che mette insieme delle persone. La nostra società ha necessità di questo, e spesso noi siamo troppo “lontani” per capirlo. Il pubblico farebbe bene al teatro. Tante nicchie di potere non potrebbero esserci se si allargasse il campo d’azione e di esistenza del teatro. Se il pubblico diserta uno spettacolo questo è un indizio. Questo oggi non avviene, non conta nulla.

M.T. Sarebbe interessante un approfondimento del discorso produttivo. Il teatro è molto chiuso rispetto al mondo dell’arte contemporanea su questo piano. E invece la sfera produttiva è un elemento che ha un grosso valore anche rispetto ad un discorso artistico. E’un terreno sul quale dobbiamo recuperare molti anni.

Indirizzi metropolitani in cui seguire, mappare, anche scontrarsi, con la nuova realtà teatrale.

C.S. Kollatino Underground, Rialtosantambrogio, Teatro Furio Camillo, Angelo Mai...

M.T. Che sono tutti posti che riescono a far vedere il contemporaneo con più efficacia. E tante istituzioni stanno studiano le modalità produttive ed organizzative di questi spazi.



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