X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



La macchia umana

Pubblicato il 19 agosto 2003 da Alessandro Izzi


La macchia umana

The human stain ha, fondalmente, tutti i pregi e tutti i difetti del classico film d’autore così come viene concepito in quel di Hollywood. Un’idea dell’autorialità cinematografica, se vogliamo, affine a quella ormai fin troppo superata della Film d’art francese d’inizio secolo che consisteva in una formula di lapalissiana semplicità: 1) un forte aggancio con una forma artistica di indiscutibile valore (il romanzo, il teatro o qualsiasi cosa possa vantare più di un centinaio di anni di età e tale da garantire una patente di dignità al film che su questa si appoggia); 2) la presenza di divi carismatici e capaci di attirare l’attenzione del pubblico, purché, al tempo stesso, essi siano osannati dalla critica e gratificati da una giusta valanga di premi e riconoscimenti e, infine, 3) un’indiscutibile cura nella confezione (il che significa, anche, una sostanziosa produzione alla base del tutto). Un’idea, lo si vede bene, che ha decisamente poco a che fare con il cinema tout court perchè non pone l’accento sui lidi insidiosi della definizione della propria grammatica e del proprio linguaggio, ma concentra tutti i suoi sforzi nella illustrazione, nella traduzione di un qualcosa di preesistente il cui valore deve essere indiscutibile. Il film, quindi, nel contesto di questa concezione assai restrittiva di cinema, è d’arte non perchè la propria forma di espressione si cristallizza in una forma che trova in se stessa la propria unica giustificazione di esistenza, ma perchè trae la propria validità da qualcosa che lo precede e su cui non si può discutere. The Human stain, tratto dal capolavoro di Philip Roth (premio Pulitzer per il precedente Pastorale americana) vorrebbe in questo senso desumere tutta la propria aura di autenticità dalla prosa lucida e splendente di uno degli autori più celebrati della narrativa contemporanea e, nel fare questo, non infrange nessuna delle leggi non scritte di cui parlavamo prima. In primo luogo perché riprende lo scheletro narrativo e alcune suggestioni del testo di partenza e le ripropone sullo schermo senza che questo fatto conduca ad una qualche forma di riflessione sulla reale necessità di siffatta operazione. In altre parole, il film non è assolutamente una riflessione sulla pagina scritta da cui dice di voler trarre ispirazione, ma una piatta trasposizione in immagine delle situazioni e dei personaggi che avevano già preso vita su quella stessa pagina. Le classiche contraddizioni della prosa rothiana (una prosa che mescola costantemente argute riflessioni sulla contemporaneità con riflessioni filosofiche ed etiche e che perde spesso il filo del racconto per dar spazio a digressioni di carattere totalmente diverso) scompaiono, così, di fronte ad un prodotto alla costante ricerca della storia nuda e cruda. In secondo luogo perché il film ricorre ad un casting molto accurato con attori di sicuro richiamo per una certa fascia di pubblico, ma anche di indiscutibile bravura. Messi insieme una luminosa Kidman (sempre più strabiliante nella sua capacità di aderire e diventare tutt’uno con i propri personaggi anche a rischio di scelte impopolari), un Anthony Hopkins sempre alle soglie della gigioneria ed uno stuolo di comprimari che annovera due presenze costanti della notte degli Oscar (sempre candidati, mai vincenti) quali Ed Harris e Gary Sinise, il gioco è virtualemente fatto. Alla ricetta base basta aggiungere una cura formale sempre alle soglie della letterarietà nella fotografia (assai raffinata al punto da rasentare la patinatura), un commento musicale poco invadente (la Rachel Portman di Le regole della casa del sidro con le sue volute degli archi con parco arpeggiare del pianoforte) ed una sceneggiatura abbastanza manierata. Risultato? Un’opera fredda, che si accende brevemente solo nei momenti deputati all’emozione e che resta sostanzialmente inerte e noiosa. Della raggelante ironia di Roth resta, alla fine, solo qualche brano del romanzo letto da una voce fuori campo e l’assurda costruzione del paradosso su cui si basa l’intreccio.

(The human stain); Regia: Robert Benton; sceneggiatura: Nicholas Meyer; fotografia: Jean Yves Escoffier; montaggio: Christopher Tellefsen; musica: Rachel Portman; interpreti: Nicole Kidman, Anthony Hopkins, Ed Harris, Gary Sinise, Jacinda Barrett; produzione: Gary Lucchesi, Tom Rosenberg, Scott Steindorff; distribuzione: 01 distribution

[agosto 2003]


Enregistrer au format PDF