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Lettere dal Sahara

Pubblicato il 1 settembre 2006 da Antonio Spera


Lettere dal Sahara

Il realismo come denuncia e analisi del mondo. Vittorio De Seta, tornato dietro la macchina da presa dopo più di vent’anni passati lontano dagli schermi cinematografici, ripropone il suo stile documentaristico per raccontarci una storia d’emigrazione. Il suo è un cinema fatto di sguardi e paesaggi che si fondono in una poetica dai ritmi lenti e con toni di critica sociale. Lettere Dal Sahara è uno spaccato di severa e tragica attualità che non si propone di giudicare niente e nessuno, ma solo di mostrare come stia andando avanti il mondo. Non prende le parti dei “buoni” e non dà per scontato neanche il fatto che possano esistere nella realtà di oggi. De Seta sta con le anime dei personaggi, patteggia per l’uomo in sé. I primi piani sono epifanie degli sguardi, pozzi di sentimenti sporcati dalla società. Il regista narra con leggerezza e flebile empatia l’incertezza del quotidiano e i risultati di un progresso che, anziché evolvere, lascia latitare il mondo in un limbo di disparità sociale. Il viaggio di Assane, protagonista del film, ragazzo senegalese emigrato clandestinamente in Italia, ne è l’emblema. La macchina da presa segue ossessivamente il giovane africano: indugiando ripetutamente sul suo volto, mette sotto gli occhi dello spettatore i dolori del suo passato e le paure per il futuro. La macchina da presa i nasconde tra la gente, si muove lentamente, non si fa sentire, come se anch’essa fosse clandestina, come se lo fosse il cinema stesso e la sua voglia di denunciare.
Le città italiane tappe del viaggio di Assane sono freddi contenitori di speranze. I totali delle strade affollate sono in realtà campi vuoti, perché così sono per il protagonista. De Seta mette in evidenza l’incapacità di fusione e condivisione tra le diverse culture. Da una parte l’Europa, l’Occidente, che vive di un complesso di superiorità senza via d’uscita; dall’altra quel Terzo Mondo che proprio nell’Occidente vede una “terra promessa”. L’opposizione dei due mondi è rappresentata senza cattiveria e con tono distaccato. Il regista lascia ogni analisi ai suoi ai personaggi. I dialoghi sono semplici ma permettono riflessioni. Le parole più importanti le pronuncia un parroco: è lui che cerca di spiegare come le due diverse culture, quella cattolico-occidentale e quella musulmana, condividano molti aspetti. Ma è una voce fuori dal coro. La società sembra ancora arretrata in questo. Infatti sarà proprio un episodio di violenza subita che costringerà Assan a tornare nel suo paese nonostante avesse trovato chi, in Italia, gli volesse bene.
Dopo un lungo periodo di inattività, De Seta non cambia il suo stile e sembra non abbia minimamente perso lucidità. Il suo sguardo solidale culla e protegge i personaggi e le loro storie. La recitazione degli attori aiuta a rende realistico il tono del film: in loro il regista ricerca la naturalezza e la semplicità, che sono poi gli elementi che portano avanti l’intera pellicola. De Seta adopera il suo stile documentaristico soprattutto nel rappresentare il lavoro in fabbrica del protagonista. Le macchine sono viste minuziosamente in ogni loro dettaglio e azione: esse sono apparecchi freddi che si oppongono visivamente alla festosità e al colore dei balli africani.
Nonostante il ritmo lento, il film non ha mai tempi morti. E anche se la parte finale ambientata in Senegal risulti largamente prolungata, non stona con il resto del film. Anzi, diventa necessaria alla sua riuscita, perché lascia speranza e si trasforma nell’inizio di un nuovo viaggio.

(Lettere Dal Sahara) Regia: Vittorio De Seta; soggetto e sceneggiatura: Vittorio De Seta; fotografia: Antonio Grambone; montaggio: Marzia Mete; musica: Mario Tronco; scenografia: Fiorella Cicolini; costumi: Fabio Angelotti; interpreti: Djibril Kèbè; produzione: A.S.P.; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia; durata: 123’;


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