The Black Dahlia
Chiamato ad aprire il 63° Festival Internazionale del Cinema di Venezia, Brian De Palma presenta il suo The Black Dahlia, tratto dal romanzo di James Ellroy, a sua volta basato su di un fatto di cronaca realmente accaduto nella Los Angeles del 1947.
Regia attenta, formalmente elegante e mai troppo sopra le righe quella di De Palma che si impegna a restare entro i confini di un genere, quello noir, di cui è pienamente cosciente; al contempo si libera della struttura letteraria propria del testo di James Ellroy, tentando di non sconvolgere quella delicata ma ossessiva oscurità presente nelle pagine del libro così come la moltitudine e la complessità caratteriale dei personaggi originali, con la consapevolezza di dovere interpretare scelte e soluzioni nella piena autonomia di un medium geneticamente diverso rispetto a quello cartaceo. E l’ossessione, la capacità di costruire ragnatele semantiche prive di sbocco sono, da sempre, tratti peculiari del regista.
Nel film si rintracciano spesso echi già noti della sua poetica, tracce di uno stile che lo ha accompagnato in tutta la sua carriera. Così per un attimo siamo quasi invitati a giocare con il testo filmico, nel tentativo di rintracciare suggestioni che riportano alla mente opere precedenti quali The Untouchable o Blow-Out, senza dimenticare un esplicito richiamo a Scarface.
In una Los Angeles dalle tinte antiche, ricostruita dal nostro Dante Ferretti, in bilico tra sogni di gloria e minacce di dannazione, per i 120 minuti della proiezione il nostro sguardo si combina con i movimenti della macchina da presa, seguendo, ed ammirando in quei frangenti in cui il cinema tocca somme vette, una narrazione visiva priva di banalità, lesta nel seguire personaggi e azione senza celare la sua presenza, evitando, però, di scadere nell’arroganza di una manifestazione eccessiva, materializzando amore, risentimento, menzogna o follia con decisioni mirate e mai private della necessaria ponderazione, come nel passaggio repentino da una soggettiva, che apre a noi spettatori il protagonismo di una visione non mediata, ad una inquadratura che senza preavviso torna nuovamente a procedere in terza persona.
Se, quindi, dal punto di vista formale la pellicola è molto ben curata, ciò che suscita qualche perplessità è il cuore emotivo del film che sembra non riuscire a pulsare sufficientemente. Una delle cause, probabilmente la principale, è rintracciabile nella scelta di un cast privo dell’amalgama necessaria per rappresentare in modo appropriato le strette relazioni e gli innumerevoli triangoli sentimentali ed ideali che legano in modo chiaro e deciso i personaggi principali. Non funziona del tutto il dualismo tra Aaron Eckhart e Josh Hartnett; mentre il primo riesce ad impegnare lo schermo con la sua fisicità e con una recitazione che ben si sposa alle contraddizioni che il ruolo gli impone, lo stesso non può dirsi per Hartnett, prigioniero di una inespressività disarmante. Delude Scarlett Johansson la cui interpretazione non è sufficientemente matura per supportare uno dei ruoli chiave del film, vero metronomo del rapporto tra i due protagonisti maschili. Si salva Hilary Swank sempre abile in un ruolo non facile dove enigmaticità e mistero fanno da riflesso di un grande potere deduttivo.
La regia di De Palma, dunque, resta il principale motivo di pregio di un film che, sia chiaro, risulta abbastanza godibile, ma dal quale, per il nome ed il valore del regista e per la fonte letteraria da cui è tratto, era lecito aspettarsi qualcosa di più.
(The Black Dahlia); Regia: Brian De Palma; soggetto: Tratto dal romanzo di James Ellroy; sceneggiatura: Josh Friedman; fotografia: Vilmos Zsigmond; montaggio: Bill Pankow; musica: Mark Isham; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Jenny Beavan; interpreti: Josh Hartnett (Bucky Bleichert), Aaron Eckhart (Lee Blanchard), Scarlett Johansson (Kay Lake), Hilary Swank (Madeleine Linscott); produzione:Signature Pictures per Equity pictures medienfonds; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA; durata: 120’;