Roma 2008 - Gyumri - L’altro cinema

Sono passati venti anni da quando un terribile terremoto distrusse la città armena di Gyumri.
Da allora, per i superstiti, poco è davvero cambiato. Le cicatrici che solcano il loro cuore non hanno potuto rimarginarsi in alcun modo.
Chi è stato estratto ancora vivo dalle macerie non riesce a dimenticare il buio umido nel sottosuolo, con gli altri compagni di sventura che morivano, uno alla volta.
Chi è sopravvissuto non può scrollarsi di dosso il senso di colpa di essere ancora vivo, di respirare, di mangiare, di provare, ogni tanto, sporadici momenti di gioia.
Chi è nato dopo, i bambini della nuova generazione che vanno a sostituire quelli morti sotto i calcinacci delle scuole (oltre un terzo delle vittime del terremoto era composto da bambini, ci informa una didascalia all’inizio del film), si porta addosso la sua nascita come una condanna senza possibilità di appello.
Hanno gli stessi nomi dei fratelli periti nella catastrofe, questi ragazzi che cominciano ad affacciarsi nell’età adulta. I genitori, che non hanno saputo né potuto elaborare un lutto tanto grande, li hanno messi al mondo col fardello dei loro morti. Li hanno obbligati a vivere due vite: la loro personale e quella dei fratelli che non ce l’hanno fatta ad uscire vivi dall’orrore. Sono stati allevati nell’idea di dover portare a compimento i sogni di chi dorme nelle tombe, a sette piedi sottoterra. E giurano, con serietà, di sentire spesso la presenza dei loro fratelli e delle loro sorelle. Si rivolgono a loro nei momenti di bisogno, chiedendo consiglio e ricevendo risposte.
Guardando le fotografie sbiadite dei morti hanno l’impressione di guardarsi allo specchio e un pezzetto delle loro anime, così gli è stato detto, è stato soffiato nei loro corpi da quel sottosuolo che aveva mangiato le speranze e le aspettative dei defunti.
Gyumri non è semplicemente un documentario su una storia particolare e locale. Gyumri è un pamphlet accorato e dolente sull’elaborazione del lutto. È un piccolo gioiello di finezza che lega la passione etnografica al bisogno di sondare, con umiltà ed imparzialità, le più riposte pieghe dell’animo umano. La regista si pone di fronte alla realtà che vuole documentare con una precisa vocazione maieutica. Permette ai vari intervistati di raccontare liberamente la propria storia. Non sollecita discorsi, non insegue la realtà con la furia del reporter d’assalto, ma aspetta che essa si palesi nello sguardo e nelle parole di persone che sono ansiose di raccontarsi anche attraverso la loro ritrosia ed il loro pudore. Così scorge il dolore nel volto delle madri che non sono riuscite a riempire il vuoto della perdita mettendo al mondo altri bambini. E allo stesso modo coglie la rabbia di questi ragazzi che non possono in alcun modo ribellarsi alla loro condizione di figli di secondo grado perché come ci si può ribellare a padri e madri che ti amano di un amore così grande da aver superato una catastrofe? Come si può rifiutare di diventare, per chi ti mette al mondo e ti vuol bene, un ponte capace di superare addirittura la morte? Così l’amore dei genitori si attacca loro addosso come l’ombra delle sbarre di una piccola prigione da cui è impossibile evadere.
Ballano, questi ragazzi, si divertono alle feste di fine anno scolastico, ma non c’è gioia nei loro balli, non c’è senso di libertà. Anzi la regista sta bene attenta a stendere sull’immagine un velo funereo che ti si attacca agli occhi e non ti lascia più.
Quei paesaggi che coglie sempre con la luce “sbagliata” che trasfigura le persone facendole ombre e figure di se stesse, ti trasforma l’immagine in una tomba del cuore. E sono i vivi a diventare fantasmi, a farsi spettri che attraversano il campo visivo carichi del fardello di una storia da raccontare. La regista si limita a raccogliere stando bene attenta a non soffocare col giudizio un dolore che non può essere compreso. E ce lo restituisce tutto, respirando per noi quel dolore che a Gyumri è confuso con l’aria. Uno smog invisibile.
Così il ricordo che torna su se stesso, che si inviluppa nelle sue contraddizioni fino a trasformarsi nel sospetto che non sia stato un terremoto a mietere tante vittime, che ci sia sotto un complotto di cui nessuno vuole parlare, corrode l’immagine come un acido. E per qualche momento ci obbliga ad intravedere quel vuoto terribile che c’è sotto.
(Gyumri); Regia, sceneggiatura e produzione: Jana Sevcikova; fotografia: Jaromir Kacer, Stano Slusny; montaggio: Anna Ryndlova; musica: Alan Vitouš; origine: Repubblica Ceca, 2008; durata: 68’
