Roma 2008 - L’impero scomparso - L’occhio sul mondo - Giornata Mosfilm
Il penultimo giorno della terza edizione del Festival del film di Roma è stato dedicato, all’interno della Casa del cinema, alla Mosfilm, uno dei più grandi enti produttivi di cinema sovietico (ancora oggi esistente, sopravvissuto alla disintegrazione dell’U.R.R.S.). Per molti cinefili non è stata una sorpresa osservare, all’inizio di ogni film proiettato, il gruppo scultoreo dell’”Operaio e la Contadina” che impugnano, rispettivamente, martello e falce, sullo sfondo della torre di Spasskij; un logo che per molti anni si è opposto al capitalista e ruggente leone americano della Metro-Goldwyn-Mayer.
Tra capolavori di maestri quali Nikita Mikhalkov (“presente” col suo Cinque serate del 1957) e Mikhail Kalatozov (di cui è stato proiettato il film vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1958, Quando volano le cicogne), si è potuto visionare la sorprendente opera di Karen Shakhnazarov (regista, produttore, membro dell’accademia cinematografica europea e, attualmente, direttore generale degli studi cinematografici Mosfilm): L’impero scomparso.
Siamo ben lontani dai tempi dell’U.R.R.S. (il film è del 2007), ma il regista riporta gli spettatori agli anni ’70, periodo di piena floridezza per l’Unione Sovietica. Un periodo in cui giovani ragazzi (come i protagonisti dell’opera), devono amare di nascosto le “novità” provenienti dall’Occidente. E tra musiche dei Beatles e dei Rolling Stones, tra uno spinello e la vendita di jeans al mercato nero, il regista, in questo viaggio alla scoperta della vita di giovani ventenni nel miglior (?) periodo dell’Unione Sovietica, lascia che gli spettatori siano accompagnati dal diciottenne protagonista dell’opera, Sergej, e dalla sua innamorata. Tra di loro, il miglior amico di Sergej, anch’egli colpito dalla bella Ljudmilla. I tre studiano alla stessa università, stando a contatto tutto il giorno: Sergej, figlio di una famiglia borghese (il nonno è un famoso archeologo), sembra essere più attratto dai richiami dell’Occidente; fa di tutto per poter comprare dei jeans o The dark side of the moon al mercato nero: arriva persino a vendere di nascosto i vecchissimi libri di suo nonno pur di guadagnare qualcosa e cerca di convincere anche il suo miglior amico a fare lo stesso. Un giorno, quasi per caso, durante una lezione universitaria sulla “grande storia del Partito Comunista”, il suo sguardo incrocia la bella Ljudmilla e, dopo un invito al cinema, è subito amore. Un amore che però, dato il periodo vissuto, corre veloce, tra distrazioni, incertezze e voglia di assoluta libertà, in una terra che, anche se né ha promessa tanta, ne ha concessa sempre poca. Tra i due, come detto, il miglior amico di Sergej, innamorato in egual modo Ljudmilla, fa scattare una sorta di triangolo amoroso che porta il film, vista anche la bravura e la precisione dei movimenti di macchina, dei piani-sequenza e delle carrellate che seguono un personaggio per poi, senza stacchi, seguirne un altro, ad essere del tutto diverso dai classici canoni cinematografici russi. Il primo impatto è quello di assistere ad un’opera fuoriuscita dai rivoluzionari e poetici canoni della Nouvelle Vague francese, con i tre protagonisti che sembrano ricalcare le orme di Jules, Jim e Chaterine, trasportando l’opera di Truffaut nel freddo inverno sovietico. Certo, non si vuol paragonare una seppur ottima opera al capolavoro del ‘62 di uno dei padri della nuova ondata cinematografica francese, ma si vuol far capire che lo stile che Shakhnazarov utilizza per questo film è molto simile a quello sognante, non di Truffaut, ma, in generale, della Nouvelle Vague.
Un doppio finale conclude l’opera: il primo in cui vediamo Sergej alla scoperta di una terra deserta, e il secondo i cui i due “ex” migliori amici (la contesa di Ljudmilla li ha portati a dividersi) si incontrano, dopo 30 anni, all’aeroporto. Sergej non è mai inquadrato, mentre il suo ora nemico, del tutto cambiato, gli spiega che sono tanti anni che vive in Finlandia, perché Mosca è cambiata e nessuno può più riconoscerla. Forse è tutto in questo doppio finale il significato di un’opera in cui il regista mostra allo spettatore i cambiamenti di una delle più potenti nazioni del mondo. La storia di una generazione costretta a vivere l’adolescenza in un modo e la vecchiaia in un altro, del tutto diverso. L’opera è il flashback di un flashback del presente: mostra la storia di una Russia, ex Unione Sovietica, ex Impero degli zar, di cui resta poco di riconoscibile. La nuova nazione è cambiata, così come il volto dell’amico di Sergej che lo spettatore non riconosce più; la terra del nonno di Sergej, quella terra desolata nella quale il protagonista si ritrova nel primo dei due finali, è un impero decaduto nel quale nessuno più vuol metter piede. Cosa resta? Il volto invecchiato di Sergej che allo spettatore non è concesso vedere perché rispecchia una nazione in cui non c’è un vero e proprio significato, una vera e propria caratteristica, ma ognuno può immaginarne il proprio ideale.
E come l’ha immaginata il regista? L’ha immaginata col giovane volto di Sergej, impegnato in un periodo che corre troppo in fretta, tra amori, passioni, litigi, delusioni, riappacificazioni, vittorie e sconfitte. Uno volto che in breve tempo è destinato a scomparire ma che, intanto, è impegnato a calzare bene i blue-jeans americani e fumare uno spinello danzando in modo abbastanza algido sulle note di Smoke on the water.
(Ischeznuvshaja imperija); Regia: Karen Shakhnazarov; sceneggiatura: Sergej Rokotov, Evgenij Nikishov; fotografia: Shandor Berkeshi; musica: Eric Liebman, Jason Criglers; interpreti: Aleksandr Ljapin, Lidija Miljuzina, Egor Baranovskij, IvanKupreenko, Vladimir Ll’in, Olga Tumajkina, Armen Dzhigarkhanjan; produzione: Studio “Kur’er” della Mosfilm; origine: Russia, 2007; durata: 105’