L’ora d’amore
Con L’ora d’amore Andrea Appetito e Christian Carmosino firmano un documentario interessante e toccante, presentato nella sezione L’Altro Cinema della terza edizione del festival internazionale del film di Roma. I due giovani registi scelgono di parlare, in meno di un’ora, dell’amore impossibile. Quello di chi è recluso in carcere e cerca di riallacciare un rapporto con quel che ha lasciato dall’altra parte delle sbarre, quello di chi quelle sbarre le attraversa una volta alla settimana per incontrare chi è dentro, e ancora, l’amore forzatamente platonico che nonostante tutto può nascere in un mondo costrittivo e soffocante come quello della prigione. L’assenza e il senso di vuoto, la frustrazione, l’attesa infinita di quell’ora d’affetto, un brandello di conversazione amorosa che non basta a nulla ma al contempo è tutto ciò che si ha, ma anche la tenacia, la pazienza e la lucidità, vengono raccontati dai protagonisti del film.
Appetito e Carmosino, presenti in sala dopo la proiezione al Teatro Studio nell’Auditorium, hanno ricordato che questo è già il loro secondo tentativo – peraltro ben riuscito – di parlare delle difficoltà dell’amore: il primo è stato il cortometraggio Quien es Pilar. Se le sbarre de L’ora d’amore sono allora anche una metafora all’interno di una più ampia riflessione su un tema che per ora è caro ai due registi, bisogna però affermare che il documentario mette a fuoco efficacemente la concretezza dalla dimensione specifica del carcere. Ci sono innumerevoli porte chiuse a chiave attraverso cui chi fa visita ai propri cari è costretto a passare, e trafile burocratiche e controlli inevitabili per un viaggio di pochi metri dal reparto femminile a quello maschile del carcere di Rebibbia. Sale d’aspetto in cui le attese diventano infinite, e poi gli orari che scandiscono piuttosto rigidamente le giornate monotone dei detenuti, che davanti all’obiettivo di una macchina da presa mai invadente si rivelano liberamente per quello che sono, con semplicità, serietà o ironia: persone come tutte le altre, che amano, sperano, attendono.
Il documentario riesce soprattutto a raccogliere l’esigenza profondamente sentita dagli intervistati di raccontare e raccontarsi, di esprimere le loro paure, le loro angosce, i loro desideri. Sono sentimenti uguali a quelli di tutti gli altri, è vero, ma in qualche modo amplificati, resi più sordi o più pesanti da un contesto – quello del carcere – con le cui regole e restrizioni devono fare i conti. Nelle interviste non ci sono intervistatori ma solo intervistati, perciò non ci sono domande, ma solo un fluire libero di parole, ricordi, pensieri e confessioni. La discrezione di questo complesso e delicato lavoro è notevole: lo sguardo dei registi non è mai morboso né indiscreto, ma al contempo sa essere partecipativo e anche solidale con chi ha scelto di partecipare a questa singolare iniziativa. Il film non è altro che il punto d’arrivo di un percorso lungo, hanno affermato i registi, in cui loro stessi hanno imparato a confrontarsi con la realtà di un mondo di cui non avevano alcuna esperienza diretta. Nel documentario vediamo soltanto alcuni di quelli che avrebbero voluto condividere e raccontare le loro esperienze sentimentali e personali. La prima storia è quella di un uomo che ha una moglie e una bambina che vanno a trovarlo in carcere il sabato pomeriggio. Il film raccoglie le riflessioni di lui e di lei mettendole a confronto, ma al momento dell’incontro la macchina da presa si allontana per non disturbare un’intimità familiare che i registi, giustamente, non vogliono in alcun modo invadere. La seconda storia è quella di una detenuta, il cui compagno si trovava nella sezione maschile del suo stesso carcere. La donna racconta di come un giorno all’improvviso le sia stato annunciato il trasferimento di lui: ora non possono più incontrarsi, condividono un amore che vive nello spazio brevissimo delle telefonate che sono loro concesse. La terza storia è quella di Angelo, che in prigione trova un amore fatto di sguardi e lettere romantiche, che però finisce nel momento in cui l’uomo da lui amato, una volta libero, decide di andare a vivere con una donna, e uniformarsi a un modo di vivere socialmente più accettato ma che forse in fondo non gli appartiene. Un po’ come uscire da una prigione – il carcere – per rinchiudersi dentro un’altra prigione, in cui le sbarre non si vedono ma ci sono comunque: questa è più o meno la riflessione finale di Angelo, che la dice lunga sul nostro modo controverso di vivere l’amore.
(L’ora d’amore); Regia e sceneggiatura: Andrea Appetito, Christian Carmosino; fotografia: Piero Basso, Ferran Paredes Rubio; montaggio: Beppe Leonetti, Fabrizio Mambro; interpreti: Mauro Cerci, Gaia Cerci, Deborah Caivano, Fatima Osmanovic, Angelo Verdoni; produzione: Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento Comunicazione e Spettacolo; origine: Italia, 2008; durata: 52’