Roma 2008 - Man on wire - L’altro cinema

Philippe Petit è un giocoliere, un funambolo e anche un mago.
Quando ha appena diciassette anni, mentre fa la fila dal dentista, legge su una rivista che in America, a New York stanno costruendo le due torri più alte del mondo, due grattacieli che sfidano la gravità come due babeli gemelle. La notizia, non si sa bene come, gli annoda lo stomaco e lo fa rabbrividire. Lascia la sala d’attesa dal dottore col pensiero che gli resterà il mal di denti per un’intera settimana, ma anche con l’idea che un presentimento sul proprio futuro lo ha appena sfiorato con ali da brivido.
Più tardi lo ritroviamo a correre per strada su una monoruota da circo, mentre il mascherino della macchina da presa lo inquadra con un iride in chiusura. Come in un film muto che si lega al ricordo di Chaplin. Un vagabondo un po’ folle, un po’ visionario che pensa prima di tutto alla sua passione: camminare in equilibrio su un cavo d’acciaio spesso quel tanto che basta per sostenere il suo peso.
Mentre avanza lo stato dei lavori alle torri di New York Philippe Petit, aiutato dagli amici e dalla fidanzata, mette in cantiere altre piccole imprese: cammina su un filo disteso tra le due torri campanarie di Notre Dame de Paris, fa l’equilibrista in Australia tra i ponti d’acciaio della capitale. Tutte avventure illegali che gli servono a prepararsi per il sogno della sua vita: stendere un filo tra le due costruzioni più alte del mondo e, in barba alle leggi e ai capricci dei venti che, lassù, soffiano forte davvero, camminarci sopra, a rischio della vita.
Per arrivare a tanto occorre, però, superare ostacoli. Occorre studiare le misure di sicurezza adottate dalla polizia per tenere i curiosi lontani dai cantieri dei lavori. Occorre procurarsi passi e documenti falsi. Per dirla in poche parole: bisogna diventare protagonisti di un film di spionaggio, con tanto di musiche adrenaliniche a commentare l’ardua impresa.
Philippe Petit non si tira indietro di fronte a nulla. Accetta ogni imprevisto col sorriso sulle labbra e la sua voglia di fare. Anche gli incidenti si trasformano, per lui, in occasioni ghiotte per aumentare l’efficienza del lavoro. Gli si conficca un chiodo nella pianta del piede? Nessun problema: per tutti i mesi in cui è costretto ad andare in giro con le stampelle tutti lo trattano bene. I poliziotti delle Torri gemelle, quelli preposti a controllare i documenti degli operai che vanno lì a lavorare, non solo non gli chiedono più di mostrar loro il passi, ma gli aprono la porta tutte le volte che lo vedono arrivare.
Poi un bel giorno Philippe Petit quel filo tra le torri lo stende per davvero e, anno 1974, entra nella storia e nella leggenda come la prima persona ad aver fatto l’equilibrista tra due costruzioni destinate a cadere per mano dei terroristi neanche trenta anni dopo.
Inutile chiedersi cosa avrebbe fatto Werner Herzog con una storia di questo tipo. Ci avrebbe imbastito sopra una delle sue consuete riflessioni sulla follia umana e sulla visionarietà di uno che cerca di vedere il mondo da una prospettiva nuova, sospeso sul vuoto. Avrebbe probabilmente giocato sulla confusione tra Arte e Vita tra Documentario e Finzione e avrebbe tirato fuori dal cappello un’altra estasi di volo, un’altra ebbrezza di visione. Ma Werner Herzog non è il regista di questo film. Il regista tedesco conosce Petit da una vita, perché è normale che i folli finiscano per incontrarsi prima o poi per condividere le loro avventure esistenziali, eppure non ha mai girato un film su di lui. Certo c’è spesso nelle sue pellicole quel senso dell’umorismo che ritroviamo in Petit, ma la storia della passeggiata tra le torri deve averlo tentato poco. Il che, col senno di poi, è decisamente un peccato!
La storia passa, quindi, ad un regista inglese: James Marsh. Il buon britannico si lascia irretire dall’ironia frizzante del francese ed osserva con simpatia il personaggio che si mette in scena e si racconta. Ma quel dissidio tra Realtà e Finzione che Herzog avrebbe esaltato in un enigma insolubile, lui lo risolve a tutto scapito della prima. Marsh è consapevole che la verità, al cinema, la puoi evocare solo se ti decidi ad inventare. Che il mondo lo puoi rappresentare solo se ti metti a dir bugie, se lo filtri tra le maglie deformanti dell’immaginazione. Ma, nella storia di Petit, lui ci vede soprattutto una fiaba a lieto fine e come favola ce la racconta, trasfigurando sempre il prosaico in un esercizio della fantasia. Così la storia vera gli diventa tra le mani un film. Una commedia spesso. Un thriller di spionaggio altrove.
È davvero un bel film Man on wire. Ma te lo gusti solo a patto di non pensare ad Herzog e di lasciarti trascinare dal puro gusto per l’affabulazione. Solo così ti accorgi che il trionfo della fantasia sul mondo evocato dal film è proprio uguale a quello di Petit sulla incontrovertibile, ma odiosa gravità.
(Man on wire); Regia: James Marsh; sceneggiatura: basata sul libro di Philippe Petit "To Reach the Clouds"; fotografia: Igor Martinovic; montaggio: Jinx Godfrey; musica: Michael Nyman; interpreti: Philippe Petit, Jean-Louis Blondeau, Annie Allix, Jim Moore, Mark Lewis; produzione: Wall to Wall; origine: Gran Bretagna, 2008; durata: 94’
