Roma 2008 - Middle of nowhere - Alice nella città
Ci sono film che, quando finiscono, puoi già dire che non sono capolavori. Non hai bisogno di ripensarli, di riavvolgerli nella tua mente, di riguardarli con lo specchio del ricordo che tutto deforma e trascolora. Li chiudi nel cassetto col pensiero che, se non lasceranno un’impronta indelebile nella storia del cinema non è perché non abbiano meriti, ma perché le pagine di una storia del cinema sono troppo poche.
È questa la sensazione che ci sorprende alla fine di Middle of nowhere. L’opera di John Stockwell te la guardi e te la senti sulla pelle nella sua dimensione mai contraddetta e mai messa in discussione di puro film di genere. È un racconto di formazione, un Bildungsroman dove tutto sta dove ti aspetti che stia e dove ogni scena risponde alle esigenze di un copione che si innesta nella sua tradizione senza avere la presunzione di stravolgerne le regole.
Ogni cosa, in Middle of nowhere si dichiara parte di un filone assolutamente riconoscibile. Quello che hai davanti è un film onesto che miscela a giuste dosi lacrime e sorrisi e da bravo critico dovresti dargli il sette delle medie intenzioni condotte in porto con giusta padronanza dei mezzi. Fosse un tema scolastico ci scriveresti sopra come commento: “Personale e sentito, denso di idee e di spunti, ma privo di autentici slanci”. Una frase che dice tutto e non dice niente. La motivazione di un voto che in sostanza, non ha per davvero un motivo perché non sai dire quale sia esattamente quell’ingrediente che manca al buon film per farne un capolavoro.
Ma Middle of nowhere ti lascia addosso delle cose che non riesci a liquidare tanto facilmente. C’è dentro qualcosa che sfugge alla penna, che scivola via quando cerchi di afferrarla e che ti trasforma la visione proprio mentre la esperisci.
C’è dentro un senso di verità che sfugge alle convenzioni classiche del Bildungsroman. Ci trovi, tra i fotogrammi, un che di impalpabile che ti apre orizzonti, che ti spalanca di fronte agli occhi un florilegio di personaggi che hanno tutte le carte in regola per cadere nello stereotipo eppure continuano a volare oltre.
Quella madre, interpretata da Susan Sarandon (non ci sono parole per dire cosa sia questa attrice magnifica!), te la figuri, non appena te la vedi apparire sulla scena, come la classica mamma fallita del sogno americano, la donna leggera che pensa alle sfilate di moda della figlia e non si accorge che sta rovinando la vita di tutti. Epperò, senza scene madri, senza la tentazione del melodramma che in genere pareggia con poca fatica i conti coi personaggi spiacevoli, ti diventa umana scena dopo scena. Riconosci la sua debolezza come la sua forza di donna viva che ha tanto sbagliato e alla fine tenta la redenzione come può, preparando frittelle che chiedono perdono più di mille parole.
I duetti con la figlia (Eva Amurri, figlia nella finzione, ma anche nella vita: intelligente scelta di casting) sono impagabili, segno di una conflittualità all’insegna della complicità. E il personaggio ne esce fuori complesso e sfaccettato, fragile e risoluto, sempre sull’orlo di lacrime asciutte o di sorrisi tirati con le molle.
Persino sulle scelte più di contorno niente è come sembra. Justin Chatwin (Ben Pretzler) ti entra in scena come il classico belloccio senza cuore, ma gli manca la baldanza dello stereotipo e ha dentro quel qualcosa in più che gli dà l’aria del ragazzo garbato che sa di essere viziato e per questo ti chiede scusa non appena ti incontra. Non è il villain sgradevole della commedia adolescenziale, quello che si porta a letto la ragazza, ma senza amarla. È stato persino in Africa a fare il volontario e ci mette un pizzico di dolcezza anche in quelle bugie di cui un poco si vergogna mentre le proferisce.
Ma tutto il film non avrebbe questo sottile profumo di vero se non ci fosse al centro un attore del calibro di Anton Yelchin che dà al suo Dorian una tale gamma di sfumature che ti dimentichi che sotto c’è il modello del classico eroe da Bildungsroman. Le parole della sceneggiatura te le condensa in scatti nervosi, dà corpo all’inespresso con l’invidiabile certezza di chi il personaggio non si limita ad indossarlo.
E mettere il non detto nelle traiettorie degli sguardi, in fondo, è proprio la cosa che meglio riesce a Stockwell in questo film che è tanto di regia quanto degli attori.
Con una tale galleria di personaggi l’approdo all’happy ending non può non diventare ambiguo, scivoloso. Il sorriso di conciliazione con se stesso di ogni personaggio non riesce mai ad apparirti posticcio ed unto. Te lo vivi non come la concessione ad una convenzione del film di genere, ma come un gesto di speranza, come un’apertura dolorosa da parte di persone che hanno sofferto e per qualche minuto ti hanno permesso di vedere le cicatrici che ci sono sotto gli sguardi e dentro i cuori. Così l’obbligo al rispetto delle leggi non scritte del filone adolescenziale sfumano nell’utopia e il film ti lascia con un sorriso umido di pianto stampato negli occhi.
Il film è finito, ma ti scalda ancora di una sensazione indefinita che perdura mentre guardi i compagni con cui hai condiviso l’esperienza della proiezione e ti sorprendi a chiederti se per caso anche loro, perfetti sconosciuti, non abbiano una storia come quella del film.
Il nowhere per qualche ora ancora ti sembrerà carico di senso e tu stai lì, nel bel mezzo, a ripeterti che certo il film non è un capolavoro, ma avercene di pellicole così…
(Middle of nowhere); Regia: John Stockwell; sceneggiatura: Michelle Morgan; fotografia: Byron Shah; montaggio: Tom McArdle; musica: Ferraby Lionheart; interpreti: Eva Amurri (Grace Berry), Anton Yelchin (Dorian Spitz), Susan Sarandon (Rhonda Berry), Justin Chatwin (Ben Pretzler), Willa Holland (Taylor Berry); produzione: Bold Films; origine: USA, 2008; durata: 95’