Roma 2008 - Rembrandt’s J’accuse - L’altro cinema

L’assassino torna sempre sul luogo del delitto.
Specialmente se porta il nome di Peter Greenaway e se la scena del crimine è un capolavoro riconosciuto ed assoluto come La ronda di notte di Rembrandt. A neanche un anno di distanza da Nightwatching, il regista inglese torna sul set (pittorico) di una sua ossessione personale e gira un film che è il gemello ribaltato del suo diretto predecessore.
I temi restano, in fondo gli stessi: la scoperta di un intrigo “nascosto” tra le pieghe di un dipinto (un discorso che c’era già nel film d’esordio: I misteri del giardino di Compton House), l’ossessione per i numeri (trentuno in questo caso), il sesso, la morte, la luce, il colore.
Mentre, però, Nightwatching coniugava questi temi al presente di un film di finzione che reinventa sempre ciò che va narrando, in Rembrandt’s J’accuse i temi sono, invece, riportati all’eterno passato di un documentario.
Alla base di tutto c’è la volontà del regista di scoprire il messaggio implicito nella disposizione delle varie figure che compongono La ronda di notte. Dietro la sapiente (e teatrale) impostazione del dipinto, nell’accavallarsi di simboli e possibilità interpretative, il regista inglese ravvisa, infatti, la fitta trama di un delitto che, pur sostanziato da una forte trama sessuale, era originato essenzialmente dalla sete di potere.
Il pittore, quindi, come già il protagonista della prima, già citata, pellicola del regista, si limita ad essere testimone spassionato della brama dei potenti. Egli è colui che vede e, senza giudicare, ritrae, tramandando ai posteri ciò di cui è stato semplice spettatore.
La posizione dell’artista, per questo, finisce per confondersi con quella del complice. Obbligato al silenzio dalla sua posizione sociale subalterna, l’intellettuale è, infatti, anche colui che ha visto troppo e che sa troppo. Egli deve, dunque, essere eliminato in qualche modo.
Ne I misteri del giardino di Compton House, film cinicamente ed ironicamente pessimista, il pittore protagonista diventava a sua volta vittima di un intrigo che non aveva neanche capito sino in fondo, ma che aveva, però, ritratto in tutta la sua nuda evidenza, raccogliendo quasi inconsapevolmente gli indizi che si ammucchiavano sugli scenari dei suoi disegni. Testimone e complice involontario di un delitto, egli soccombeva a sua volta per mano di quegli stessi assassini che si erano impegnati a pagarlo per il suo lavoro.
In Nightwatching e poi in Rembrandt’s J’accuse il destino è meno crudele, ma non meno beffardo: ricacciato dalla società che l’aveva fino a quel momento acclamato, il pittore si ritrova, di colpo, povero e, ironia del destino, quasi cieco.
In entrambi i casi la visione del rapporto che lega l’artista al suo pubblico non potrebbe essere più sconsolata e sconsonante. La società, ci dice il regista, in fondo, ha bisogno dell’artista perché cerca, attraverso l’Arte, la propria stessa magnificazione. Ma quanto più l’Arte è spassionata, tanto più ad essere ritratti saranno proprio quei vizi che la società vorrebbe, invece, tenere nascosti. Per questo motivo, alla fine, artista ed Arte devono essere eliminati e messi nelle condizioni di non nuocere.
Greenaway dirige un documentario beffardo che, nel suo apparente rivolgersi al passato parla, invece, moltissimo del presente. Ed è un presente buio, quello descrittoci dal regista. Un presente in cui, nonostante il proliferare delle immagini in film di pessimo cinema, la nostra capacità di leggere l’immagine (nella sua immediatezza come nella sua ambiguità) si è ridotta quasi a zero. C’è nostalgia nel digitale di Greenaway. Nostalgia per un passato non poi tanto lontano in cui i simboli della pittura erano alla portata di tutti. Un’età dell’oro in cui ogni dipinto era decifrato ad un solo colpo d’occhio, senza bisogno di mediazioni. Un passato in cui il testo non era centrale ed incontrovertibile e le idee, la filosofia, potevano respirare tra pennelli e tempere.
Oggi, invece, abbiamo bisogno, per capire un quadro, della pedanteria di una voice over che scorra sul dipinto, spiegandolo. Abbiamo bisogno della parola che ci chiarisca un concetto che sta tutto in un gioco di luci e colori. Il documentario di Greenaway così finisce per prendersi e prenderci in giro. Finge di essere un documento televisivo come ce ne sono tanti (anche se non così eleganti e conturbanti) e ci mette di fronte alla nostra cattiva abitudine di spettatori d’immagine passivi e inabili a decifrare.
Finché alla fine non sorge il sospetto che la vera vittima di tutto non sia proprio La ronda di notte. Chiusa per sempre in un museo sotto milioni di sguardi incapaci a penetrarne il segreto.
(Rembrandt’s J’accuse); Regia e sceneggiatura: Peter Greenaway; fotografia: Reinier van Brummelen; montaggio: Elmer Leupen; musica: Marco Robino, Giovanni Sollima; interpreti: Martin Freeman (Rembrandt van Rijn), Eva Birthistle (Saskia Uylenburgh), Jodhi May (Geertje), Emily Holmes (Hendrickje Stoeffels), Jonathan Holmes (Ferdinand Bol); produzione: Submarine; origine: Olanda, 2008; durata: 86’
