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RomaFictionFest 2010 - Intervista a Jason Priestley

Pubblicato il 10 luglio 2010 da Giampiero Francesca


RomaFictionFest 2010 - Intervista a Jason Priestley

Sono passati quasi vent’anni da quando un giovane Jason Priestley appariva per la prima volta nei panni di Brandon Walsh, prototipo del bravo ragazzo in Beverly Hills, 90210. Molti progetti dopo, e con qualche centimetro in più, come ammette lo stesso Priesley, l’attore canadese si confronta con un personaggio, Richard Fitzpatrick, diametralmente opposto a quel good boy che da allora la sua immagine rappresenta. Accanto a lui, alla presentazione di Call me Fitz, al RomaFictionFest, Sheri Elwood, una delle autrici della serie.

Nell’immaginario comune la tua immagine è ancora legata al personaggio di Brandon Walsh di Beverly Hills 90210, il prototipo del bravo ragazzo. Negli ultimi anni, prima con Jack Harper in Tru Calling e ora con Fitz in Call me Fitz, ti sei dovuto confrontare però con dei villain, dei bad guy...

E’ stata una bella sfida. In fin dei conti è questo il lavoro dell’attore ed il motivo per cui mi piace; avere la possibilità di  interpretare personaggi molto diversi. Se fossi stato costretto ad interpretare sempre lo stesso tipo di personaggio probabilmente non avrei amato molto questo mestiere. Per questo posso solo dire che sono stato molto fortunato ad avere la possibilità di interpretare personaggi tanto diversi come sono Jack e Fitz.

Il successo di serie come Call me Fitz o Californication è fortemente legato al successo dei loro protagonisti, antieroi moderni che non nascondo i propri vizi e le proprie frustrazioni. Da autrice, Sheri, secondo te, a cosa si deve la fortuna di questi caratteri?

Dall’epoca in cui viviamo. Viviamo in tempi in cui si tende ad accettare di più i difetti morali che tutti noi abbiamo. In un certo senso mi piacerebbe dire che c’è più trasparenza. Proprio per questo non dovremmo permettere a nessuno di cavarsela, di passarla liscia, men che meno ai nostri politici e ai nostri premier. In generale c’è comunque un maggiore apprezzamento per l’antieroe perché si cerca di capire sempre di più i demoni che ci perseguitano. In un personaggio come Fitz tutti riescono ad immaginarsi, è molto più universale del bravo ragazzo anni ’90. Anzi, non credo che esistano davvero dei bravi ragazzi così. Nessuno è tutto buono o tutto cattivo, bianco o nero, esiste anche il grigio. Fitz però non è un vero villain, un cattivo, è un uomo onesto, una persona che non ha paura di ammettere i propri vizi e limiti. Vive la sua vita, son gli altri ad aver problemi con lui. Cerca sempre di fare il meglio che può con i pochi mezzi che ha a sua disposizione ma non è colpa sua se ne ha così pochi, basta guardare la famiglia da cui proviene. Faccio davvero fatica ad immaginare una famiglia meno funzionale della sua.

Come definiresti quindi il personaggio di Fitz?

Devo dire che in fin dei conti Fitz è un adorabile cattivo, per questo tutti cercano di aiutarlo in qualche modo. Mi dicevano, sai, se qualcuno legge il copione nessuno accetterà il ruolo, io invece ero sicura che con l’attore giusto sarei riuscita ad unire nello stesso personaggio sia il diavolo che l’angelo. Solo così la serie sarebbe potuta funzionare bene.

Credi che esistano molti Fitz nella vita reale?

Sicuramente. Devo dire che il personaggio di Fitz, pur essendo molto specifico è anche molto universale, un personaggio con cui tutti riescono ad identificarsi, sia gli uomini che le donne. Gli uomini perché, anche se non sono come lui, hanno avuto un amico che era come lui. Le donne hanno certamente avuto un fidanzato o frequentato un uomo che assomigliava a lui… e sicuramente hanno provato a cambiarlo.

Jason, molto del successo di questa serie è dovuto anche alla sottile ironia che riesce a trasmettere...

L’umorismo di Call me Fitz per me è stato una vera sfida. Già la forma della serie è di per sé una sfida. Un format di trenta minuti a puntata girati in single camera è un’idea bellissima, ma per me anche decisamente nuova. All’interno di una struttura per me così particolare ho cercato di fare di tutto affinché funzionasse e funzionasse anche questo stile di commedia e di ironia. E’ stata un’enorme e gratificante prova, visto come è stata accolta dal pubblico. Le persone infatti hanno riso moltissimo e sin son divertite: questo significa che abbiamo centrato il nostro obiettivo.


All’epoca di Beverly Hills avevi un gran numero di fan che ti adoravano. Com’è cambiato il tuo rapporto con loro? E come sei cambiato tu da allora?

Sicuramente sono cambiato, son diventato più alto. Spero che quelle che erano le mie fan siano cresciute con me. Come attore mi auguro sempre che il pubblico continui a seguirmi nei progetti che seguo, nelle serie e nei film che faccio, anche al di là dei primi successi. Fra l’altro fra poco girerò un western a Vancouver, Goodnight for Justice , con Luke Perry (Dylan McKay in Beverly Hills, ndr).

Come ti sei trovato nel ruolo di regista?

Sono ruoli completamente diversi. L’attore si concentra unicamente su se stesso, sul suo ruolo. Da regista invece devi occuparti di tutto il cast, devi cercare di avere sempre un’ottima visione d’insieme e al tempo stesso devi possedere molte competenze diverse per poter dirigere davvero il set. Io mi trovo molto bene in entrambi i ruoli e, se non sarò costretto a scegliere fra l’uno e l’altro, continuerò a farli entrambi.

Nonostante i molti progetti da te realizzati dopo Beverly Hills la tua immagine è però sempre legata al personaggio di Brandon, una vero simbolo dagli anni ’90. Quant’è difficile confrontarsi con un’icona così? Quanto affrancarsene?

Devo dire che è una cosa su cui non si ha alcun controllo. Non puoi lasciare che l’esser stato un’icona ti influenzi, in qualsiasi senso. Devi solo cercare di andare avanti nella tua carriera, facendo le tue scelte. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di mettermi alla prova, di pormi delle sfide che mi facessero crescere come artista.

Una delle tue interpretazioni più brillanti è stata proprio lontana dal piccolo schermo, con il Ronnie Bostock di Amore e morte a Long Island. Puoi raccontarci qualcosa su quell’esperienza e sul tuo rapporto con John Hurt, il protagonista del film?

Per me girare Amore e morte a Long Island è stata un’esperienza fantastica. All’epoca avevo ventisei anni, e avere come attore la possibilità di lavorare con John Hurt è stata un’occasione fenomenale. Tutt’oggi siamo ancora amici con lui. John per me è stato una grande ispirazione ed un grande maestro. Fra l’altro quel film è stato girato ad Halifax, in Nuova Scozia, molto vicino alle location di Call me Fitz, quindi, in qualche modo, è un cerchio che si chiude.

Molte delle produzioni a cui hai parteciapto, Call me Fitz compresa, sono di origine canadese, quali sono le caratteristiche di questa realtà così prossima agli Stati Uniti ma per lo più sconosciuta?

In Canada ci sono sicuramente meno fondi a disposizione, ma per un certo tipo di prodotto è comunque una situazione ideale. Il  nostro era un progetto per la tv via cavo, troppo azzardato per i network tradizionali, e proprio per questo il Canada è stata una buona scelta. Abbiamo avuto molta libertà in fase di ideazione e realizzazione di Call me Fitz, costruendola così come la avevamo immaginata, senza troppe interferenze. Negli Stati Uniti, quando si pensava a questa serie,  si incontravano sempre resistenze e richieste. Avrebbero voluto una serie più family friendly, più vicino alle famiglie. In Canada invece ci hanno garantito piena autonomia, dandoci la possibilità di metter in scena esattamente quello che avevamo immaginato.

Un’ultima curiosità. Hai mai riguardato la vecchia serie di Beverly Hills? E cosa pensi della nuova serie 90210?

In genere non guardo mai la vecchia serie. La nuova è sicuramente un prodotto interessante, ho anche diretto alcuni episodi, ma non ha nulla a che vedere con quella precedente.


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