Rosso Malpelo (Conferenza stampa)

Subito dopo la proiezione di Rosso Malpelo abbiamo incontrato il suo autore, Pasquale Scimeca.
La tua è una formazione letteraria, cosa che si evince anche da molti dei tuoi lavori. Come è stato e che difficoltà ha comportato l’incontro con la letteratura di Verga?
P.S. - Ho sempre avuto presente dal punto di vista ideale l’opera di Verga secondo una mia personale interpretazione. Sono convinto che Verga più che un verista sia un grande tragico, ed è questa la lettura che dò dell’opera verghiana. Come la tragedia classica, parte da un microcosmo, una piccola realtà, per raccontare il mondo, l’animo umano. Questo è sempre stato il mio rapporto con Verga. In Rosso Malpelo c’è il Verga tragico ma non solo. C’è anche la presenza di Capuana e De Roberto. Ma in tutto il film c’è un percorso che va oltre il verismo. È forte la presenza di un grande scrittore brasiliano, Jorge Amado, del suo romanzo I capitani della Spiaggia in cui si racconta dei bambini di strada di Bahia, che ti porta in un’altra dimensione del realismo, in quello che Vittorini chiamava il realismo magico, questo modo che hanno gli scrittori dell’America Latina di raccontare la realtà e di trasfigurarla in dimensioni di follia contaminandola con elementi di altra natura come la magia. E poi c’è la presenza di Franco Scaldati che conduce sul piano di un surrealismo quasi iperrealista perché nasce da un quartiere di Palermo, dai personaggi veri, da quel sottoproletariato urbano tipico di questa realtà. Se tutto questo si sposta in chiave cinematografica non si può fare a meno di rifarsi al neorealismo che ha in Verga una vera e propria base. Visconti quando inizia la stagione del neorealismo e si pone il problema di rompere con la tradizione dei telefoni bianchi vuole raccontare la realtà e per farlo viene in Sicilia con in tasca i libri di Verga con l’idea di realizzare quei film che tranne La Terra Trema non riuscì mai a portare a compimento.
Il problema più grande che ho dovuto affrontare è che in Sicilia, tranne qualche traccia, non esiste più il mondo dei minatori. L’unico modo che avevo di raccontare questo mondo scomparso, restando fedele alla poetica neorealista, era la trasfigurazione in metafora, quasi sotto forma di favola. Ma se è vero che questa realtà non esiste più da noi, nel mondo è ben presente, con milioni di bambini costretti a lavorare nelle miniere. Servendomi quindi della metafora ho cercato di recuperare il realismo che non è per forza la realtà, ma il reale che si trova da un’altra parte ma comunque vicino a noi. Oltre al neorealismo, poi, è forte in me la passione per il Cinema Novo Brasileiro, quello di Glauber Rocha, dove il problema del raccontare la realtà è superato dal ruolo rivoluzionario del cinema, cioè dalla sua capacità di incidere nella realtà. Il progetto legato al film è quindi parte integrante del film stesso perché evidenzia un modo di fare cinema legato alla società, alla sua capacità di essere presente in modo attivo nella vita.
Seguendo la tua distinzione tra realtà e reale, il tuo cinema è estremamente legato ai simboli, agli elementi del reale. Uno di questi è la luce.
P.S. - La luce è l’origine del cinema. Il lavoro che io faccio con i miei direttori della fotografia, prima Pasquale Mari e in questo film Duccio Cimatti, che è sempre stato il nostro operatore, è un lavoro semplice, quasi banale. Si può usare la luce per costruire o per trasformare una realtà. Noi vogliamo usare una luce che racconti la realtà. Per le scene dentro i cunicoli, per restituire la percezione della luce dei minatori abbiamo usato le lampade reali, quelle ad olio o a petrolio, ma nello stesso tempo qualche neon di rinforzo per permettere alla pellicola di leggere la luce, il cui unico compito è quindi quello di raccontare la realtà. La luce naturale, quella degli esterni ha un altro significato perchè volevo che i paesaggi avessero il respiro dell’Africa e i villaggi quello dell’America Latina ed in questo Duccio ha fatto un lavoro enorme.
Parlando del Cinema Italiano di oggi, sempre più si ha l’impressione che i film restino chiusi in se stessi, che raccontino sempre gli stessi ambienti e le medesime situazioni. Dipende dalla produzione o da una mutata capacità ricettiva del pubblico pagante.
P.S. - Non credo sia un problema del pubblico ma della produzione. Stanno cercando di distruggere l’indipendenza produttiva. La concentrazione del potere economico, che poi determina la possibilità di realizzare un film, nelle mani di pochissime persone che in qualche modo non si limitano solo a finanziare ma hanno un’idea precostituita ed ideologica di un cinema che deve essere esclusivamente commerciale, ha causato un impoverimento sul piano espressivo e creativo. Ci troviamo di fronte ad un cinema ingessato che ha a che fare esclusivamente con il commercio, con critiche sempre smussate all’interno di un discorso quasi televisivo. Poi c’è un microcosmo di ragazzi, di professionisti che vogliono fare un certo tipo di cinema, che amano il cinema ma che non hanno i mezzi né per produrre né per farlo vedere. Sul piano del cinema documentario in Italia c’è un ottimo livello; il problema è che poi queste cose non si vedono da nessuna parte. Questo è il grande problema del cinema italiano di oggi, la presenza di un sistema quasi monopolistico che chiude tutti gli spazi e che tende ad emarginare non solo la fase creativa ma anche quella distributiva, eliminando i luoghi dove potere vedere un cinema diverso. È un discorso puramente ideologico, perché non c’è interesse economico in tutto questo. In America, con tutti i limiti, sono proprio le grandi Majors che alimentano le produzioni indipendenti perché riconoscono un possibili vivaio. In Italia si tende ad escludere, a far morire sul nascere qualsiasi nuova idea di cinema, non capendo che la gente si stancherà, prima o poi, di vedere sempre le stesse cose.
Tu spesso lavori con attori non professionisti. L’impoverimento creativo pare coinvolgere anche il corpo attoriale, ed i nuovi interpreti emergenti che spesso hanno movenze più televisive che cinematografiche.
P.S. - Un grande limite del cinema di oggi è quello di valorizzare professionalità che non meritano. Nel cinema Italiano, quello della commedia, c’erano attori ed attrici di altissimo valore. Oggi si è abbassato così tanto il livello, che si è arrivati al livello del fotoromanzo. E gli attori bravi, veri, che fanno ricerca, che si mettono in gioco, diventano mosche nere, quasi non funzionano in questi contesti. Spesso capita di vedere film con attori bravissimi la cui forza si perde nell’insieme della recitazione ed in cui il talento dell’attore diviene quasi un difetto perché stona con il livello generale. Gli attori ormai sono paragonabili alle veline o agli amici di Maria de Filippi, ed un attore vero non può funzionare in quel contesto. Ci sono attori bravi che io conosco che quando recitano in prodotti puramente commerciali sono costretti a limitarsi pur di non superare la mediocrità generale. Il cinema ormai non cerca volti nuovi, ma volti affermati da esportare al cinema. L’attore, invece, ha un senso solo se riesci a tirare fuori la sua anima.
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