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SABINA E ZAPATERO

Pubblicato il 18 settembre 2005 da Edoardo Zaccagnini


SABINA E ZAPATERO

La sera prima avevano distribuito spillette con su scritto Viva Zapatero! La Guzzanti si era esibita in una schitarrata brilla per invitarci a non mancare. C’erano donne bellissime insieme ad altre intrufolate, e desideri che si sarebbero consumati poco dopo. Nè io né altri, ubriachi di birra gratuita, avevamo di fatto ben compreso. C’era troppo frastuono e l’ottava giornata di film così e così. E tante, troppe grigie considerazioni sul cinema italiano. Il film della Comencini, onesto, degno e normalissimo era stato visto con un favore che appariva urgente e quindi fuori misura. Faenza era passato come passa un mal di gola e Pupi Avati aleggiava nell’aria pretenzioso ed educato, sostanzialmente innocuo. Procacci si era lamentato che il “suo” Texas non fosse in concorso e Scimeca si era incastrato nei costumi e nella storia delle religioni. Eravamo sopravvissuti a Vladimir Luxuria, figurarsi se Giada Colagrande poteva spaventare più che un pizzico. Uscivo ora da un Palagalileo in delirio, anche se il film era finito da quasi un quarto d’ora. Mi allontanavo incredulo mentre l’eco degli applausi si dissolveva coi miei passi verso la “Casa degli autori”. Ero felice e non l’avrei mai detto. Avevo visto un lavoro formidabile e mi ero emozionato. Mi chiedevo, frastornato e impreparato, quanto e come se ne sarebbe parlato: quale e di che lunghezza sarebbe stata la strada di questo straordinario film-documentario. Faticavo a costruire un rapporto tra Sabina Guzzanti e il cinema italiano, ma i fatti erano fatti e Viva Zapatero era arrivato fino a dove, in quella mostra, erano riusciti solo il Casanova di Federico Fellini e i Banditi a Orgosolo del maestro De Seta, restaurati apposta per l’occasione e di una luce propria che si fatta lontanissima e preoccupante. Come in quei due casi, uscivo dalla sala nutrito e soddisfatto ma il mio stato d’animo, stavolta, non era contrastato dalla malinconia del paradosso in cui erano caduti i “favolosi” (in senso cinematografico) anni sessanta dell’Italia: Viva Zapatero era il presente e avrebbe potuto essere il futuro, se glielo avessero lasciato vivere. Se non ne avessero fatto un Peppino impastato di nastro magnetico. Sorridevo al pensiero che Santoro, Biagi e Marco Travaglio avessero risposto allo strapotere, giovane e già vecchio, dei Lo Cascio, dei Boni e degli Zingaretti. Chi l’avrebbe mai detto che il desaparecido di Sciuscià, o il giornalista che annunciò al paese la fine dell’alleanza col nazismo, potessero commuovermi? Per un attimo fui raggelato: “E se San Silvio (il divo) avesse preteso la coppa Volpi?” Mi rilassai immediatamente perché il film era fuori concorso e pensai che l’onda emotiva della proiezione si fosse impadronita di me in maniera esagerata. “E se una nuova legge ad hoc lo avesse consentito? Con tutta la poesia del film addosso, mi avviavo all’incontro con l’autrice, piombata “a sorpresa” (inaspettata e piacevolissima) su un lido fradicio di pioggia, invitata dall’associazione degli autori. Camminavo in mezzo alle transenne e a tutte quelle ragazzine che affollavano la passerella a caccia di una foto con l’eroe. Ricordavo le parole di Dario Fo sulla satira, e gli accenti pacati del filologo Luciano Canfora, per cui un paese civile dovrebbe sempre misurarsi con la forza che la satira può sprigionare. Mi rendevo conto, ancor meglio di prima, di come questo non stesse accadendo nel paese reale. Le frasi balbettanti dei politici di ogni colore avevano impattato sulla mia voglia di capire. Per questo stavo amando il film e per la sua bellezza intrinseca di documento sincero, severo, unico e intelligente, con un finale quasi commovente. I 62 leoni, di cui 61 riciclati, sembravano meno pesanti e impolverati. Quasi non disturbavano. Sabina Guzzanti come Michael Moore, pensavo. Sperando che il paragone lì nascesse e lì finisse. L’applauso che la riaccolse era sincero e potente come quello che lo aveva preceduto e i giornalisti più affermati ribadivano a turno complimenti e gratitudine. Le parole della Lucky Red, nella persona di Andrea Occhipinti, allontanavano gli ultimi sospetti e le paure inconfessabili: “Il film uscirà in molte copie e, stando alle reazioni e alle telefonate che già ricevo, si tratta di un numero destinato ad aumentare”. L’arzillo Monicelli parlava di un film dall’atmosfera non piagnona, non retorica e sotto i gazebo bianchi della “Casa degli autori”, nel giorno in cui un tremendo temporale trascinò via per qualche centimetro sedie e tendaggi, facendo correre e urlare le donne, stavano arrivando sempre più persone. Era plumbeo e aveva rinfrescato. Sopra eleganti poltroncine in vimini, infastiditi dalla pipa di un Curzi soddisfatto, già sedevano Santoro, Travaglio e Bruno Gaccio. Quello che da un sacco di anni, in Francia, ci andava giù pesante con Chirac, e pure con Berlusconi. Che teneva liberamente e quotidianamente in salute la satira politica con una trasmissione intitolata Le grand Guignol,. Quello che non riusciva a paragonare Porta a porta a nulla di francese, che non poteva definirlo se non come una “satira dell’intelligenza”. Finalmente parlò Sabina: “Non è un film su Berlusconi” sentenziò, “è un film sulla degenerazione del sistema. E la censura non è altro che un segno di questa malattia”. I crociati lo concepivano già come un film sul “dopo” ed erano rivolti ad un’intera classe politica che non faceva quello per cui era stata eletta, che stabiliva oligarchie, una classe politica incapace addirittura di parlare e di spiegare. Bisognava recuperare la funzione della libertà, garantita dalla forza dell’opinione pubblica. Per questo il bersaglio non era tanto Berlusconi, che “in quanto non genio non poteva esserlo neppure del male”. Bisognava affrontare un sistema marcio che permetteva a lui oggi, come a un altro domani, di fare ciò che gli pareva. Lo chiarì Marco Travaglio ricordando l’aneddoto in cui Petrolini, disturbato, durante un suo spettacolo, dall’idiozia di uno spettatore in prima fila, sospese per un attimo di recitare e si rivolse al soggetto spiegandogli come non fosse arrabbiato con lui, ma col suo vicino di poltrona incapace di mollargli un ceffone. L’incontro finì con un nuovo applauso e i ringraziamenti privati della gente. L’indomani i quotidiani raccontarono quello che era accaduto. Come andò a finire non lo ricordo bene...

[Settembre 2005]


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