Se chiudo gli occhi non sono più qui
È un film di Nord Est italiano, spento insieme di non luoghi, grigio secco di vite ai margini, di bassa classifica della vita. Perché immigrate o più semplicemente perché sfortunate. E’ quel presente silenzioso, invisibile e drammatico di vite in affanno, se non in apnea, che abitano città che non si vedono mai, se non attraverso i loro metallici e arrugginiti confini. E’ prima di tutto la storia di un’adolescenza che implode, di madre filippina e padre italiano, sbattuta dalla vita in un angolo di Friuli indifferente se va bene, violento al primo accenno di affermazione dell’altro, del più fragile e solo. E’ la storia di una formazione complicata, a rischio ogni giorno perché il padre buono e dolce (Ignazio Oliva) è morto in un incidente stradale, e una madre con le sue normali debolezze ha visto un’occasione nella corte di un capomastro italiano (Beppe Fiorello) che forse la ama, e di sicuro è disposto ad accollarsi anche il figlioccio dai connotati asiatici. Di più, per lui immagina e predispone un futuro da cantiere, di alzatacce e schizzi di calce, di furgone sgangherato e convivenza con operai di tutto il mondo, che qualche volta bevono e combinano casini, mentre ogni giorno si nascondono dalla legge italiana pur non avendo fatto nulla di sbagliato. È una storia sotto le nuvole, lungo una strada ad alto scorrimento, di una acerba vita e di una sofferenza ed una solitudine non solo sociali, ma anche proprie di quella fase della vita chiamata adolescenza. È quindi una fusione di due grandi temi, uno di oggi ed una senza tempo, che si fanno romanzo cinematografico girato con tensione e passione, coi giusti toni e un bel colore generale. Ma è anche un film assai legato ad argomenti visti spesso (ed anche di recente) al cinema, e quindi necessariamente da affrontare con una verità forte che eviti il rischio di renderli troppo somiglianti ai casi precedenti, e quindi di maniera. Moroni e il suo sceneggiatore Marco Piccarreda cercano di donare al protagonista un moto interiore consistente, al punto da fargli superare i confini della politica e della pericolosa attualità, per farlo portatore di una riflessione di certo più universale sulla vita. Il protagonista fugge, soffre, si ribella, sbaglia e a poco a poco, anche attraverso clamorosi colpi di scena, impara la vita e cresce. Questo suo continuo movimento, se evita al film di andarsi a rinchiudere nello scaffale dei film italiani sull’integrazione degli immigrati di seconda generazione, non riesce comunque ad elevarlo ad una di quelle storie cinematografiche in cui senti fortissimo l’odore del personaggio, condividi il suo dolore e ascolti il rumore ed il sapore amaro dei piccoli mondi attraversati dal suo viaggio, interiore ed esteriore. Questa forza, che appartiene a pochissimi film, l’ultimo lavoro di Moroni non ce l’ha. Il suo rimane un buon lavoro, asciutto e preciso, compatto, fluido, ma perché non sperare in qualcosa di più vivo alla prossima occasione? Del resto il passato di Moroni dice che in fatto di originalità ed autenticità, il regista di Sondrio è uno che sa il fatto suo. E noi qua siamo.
Regia: Vittorio Moroni; sceneggiatura: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda; fotografia: Massimo Schiavon, Andrea Caccia; montaggio: Marco Piccarreda; interpreti: Giorgio Colangeli, Beppe Fiorello, Ivan Franek, Ignazio Oliva; produzione: VITTORIO MORONI PER 50N, RAI CINEMA