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State of Play

Pubblicato il 30 aprile 2009 da Marco Di Cesare


State of Play

Chissà quanto marciume e quali giochi di potere riposano - falsamente quieti – sotto la linda cupola del Campidoglio di Washington, un gigantesco vaso di Pandora degno di essere scoperchiato. Chissà quanto potrà venire sconvolto il futuro di Stephen Collins (Ben Affleck), giovane e rampante deputato del Congresso, dopo il suicidio di Sonia Baker, una ragazza del suo staff che si scoprirà presto essere stata sua amante, relazione clandestina di un uomo da tempo sposato alla compagna di college Anne (Robin Wright Penn). Chissà se il loro amico di vecchia data, Cal McAffrey (Russell Crowe), caporedattore della cronaca del ’Washington Globe’, riuscirà ad aiutare il politico a uscire fuori dalla situazione incresciosa. Ma chissà se Cal troverà anche qualcos’altro: ovvero l’unico bandolo di una matassa intricata.
L’ultimo film dello scozzese Kevin Macdonald (documentarista che già due anni fa aveva affrontato la rappresentazione del Potere attraverso L’ultimo re di Scozia) è un impasto di mondi che si incontrano, un universo dove regna la doppiezza, come in qualsiasi buon thriller che si rispetti e come la politica ci insegna ogni volta, sempre uguale a sé stessa, fedele solo alla sua immagine. Un mondo dove l’America demanda la sua sicurezza e la guerra a imprese private – composte di mercenari, secondo alcuni – multinazionali dai fatturati miliardari sulle quali indaga Collins, a capo di un comitato che supervisiona le spese per la difesa nazionale. Un mondo freddo come la superficie di uno specchio, contro la quale Macdonald si getta senza remore per mandarne in frantumi l’apparire – che, in quanto tale, è rivestito della patina comunque opaca e devitalizzata propria dell’ambiguità - trascinandoci con sé, senza alcun indugio. Fin dall’inizio, seguendo un ragazzo nero, quasi perseguitandolo mentre fugge tra la folla notturna della metropoli, solo, inseguito come da un’ombra che diviene un volto presto ben visibile, con in mano pistola e silenziatore, in un stradina che sembrerà sempre più un vicolo cieco. E come un’ombra il mattino seguente la mdp seguirà gli ultimi istanti in vita di Sonia Baker. Mdp che saprà stare sempre ben addosso ai personaggi che metterà in scena, lungo le due ore piene di un film che scorre senza intoppi assieme a una classica linearità che progredisce attraverso sguardi sulle interiorità degli individui, clamori rivelati, ironie sparse e movimenti repentini che si dimenano sul corpo di un’etica che appartiene a una professionalità calpestata.
Perché State of Play è cinema che mette in discussione la presunta obiettività del giornalismo, contaminato dalla vicinanza con il potere, rappresentato dalla politica, come dall’asservimento ai grandi numeri di un pubblico sempre più piccolo e sempre più distante da pagine che considera cartastraccia. Mentre si sente ancore l’aleggiare degli anni Settanta, del sempiterno Tutti gli uomini del presidente, emblema di un mondo divenuto ormai antico. Vecchio, ma forse non ancora perduto: perché quella lontananza diviene presenza materiale grazie a Cal McAffrey - nonostante le contraddizioni di quest’ultimo - una figura perfettamente incarnata da un Russell Crowe che, tramite un’essenza cinematografica ormai conclamata di uomo rude e tutto d’un pezzo, copre lo spazio sullo schermo, al pari del disordine che lo accompagna, come la sua Volvo del 1990 che ancora cammina o del computer altrettanto attempato che, vigile, funziona senza sosta sulla scrivania. Un mondo in calare – forse – che ne incontra un altro in divenire: l’epoca nuova del giornalismo internettiano di Della Frye (Rachel McAdams, con tutta la sua giovanile e tenera banalità), blogger dell’edizione online del quotidiano, inizialmente malvista da McAffrey, ma che si rivelerà come una discepola anche forte, sempre più affidabile mentre imparerà i primi passi che la condurranno verso il vero giornalismo, quello che non si accontenta di rimirarsi nella prima superficie fintamente luminosa che incontra. Percorso che, però, servirà molto anche al maestro McAffrey.
E in una pellicola dove i rapporti d’amore hanno assunto i toni della sconfitta, è pregevole come il mascolino protagonista non intrattenga relazioni sessuali lungo il suo cammino, comunque un po’ stretto tra figure femminili piene di dignità, a cominciare da una grande Helen Mirren, la sarcastica e pungente direttrice del giornale Cameron Lynne, che insiste perché i suoi sottoposti sacrifichino verità non abbastanza approfondite sull’altare di esclusive pruriginose, per salvare il salvabile di fronte agli occhi dei nuovi editori, che sembrerebbero non nutrire particolare rispetto verso un mondo in frantumi.
Concludendo, si può affermare come, all’interno di un cast che in State of Play è coeso, tutt’altro che frantumato e in buona parte capace di esprimersi attraverso lampi di una certa classe, stona un Affleck non particolarmente convincente. Tuttavia, per sua fortuna ciò ci importerà fino a un certo punto, perché continueremo comunque a volergli bene, grazie a Gone Baby Gone.


CAST & CREDITS

(id.); Regia: Kevin Macdonald; sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy e Billy Ray dall’omonima miniserie tv della BBC creata da Paul Abbott; fotografia: Rodrigo Prieto; montaggio: Justine Wright; musica: Alex Heffes; interpreti: Russell Crowe (Cal McAffrey), Ben Affleck (Stephen Collins), Rachel McAdams (Della Frye), Helen Mirren (Cameron Lynne), Robin Wright Penn (Anne Collins), Jason Bateman (Dominic Foy), Jeff Daniels (George Fergus); produzione: Andell Entertainment, Bevan-Fellner, Relativity Media, Studiocanal, Universal Pictures, Working Title Films; distribuzione: UIP; origine: USA, 2009; durata: 125’; web info: sito ufficiale.


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