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Gone Baby Gone

Pubblicato il 5 aprile 2008 da Marco Di Cesare


Gone Baby Gone

È piacevole notare come nei dintorni di Hollywood ci sia ancora la forza di confrontarsi col Classico cinematografico, ma con l’intento di superarne le forme, in modo da mettere in discussione la mitologia che è stata la reale fondazione della cultura americana totalizzante e globalizzante. Dal Sean Penn di Into the Wild ai redivivi Coen di No Country for Old Men, dal resuscitato Ridley Scott di American Gangster al Paul Thomas Anderson de Il petroliere fino, purtroppo, al dittico dell’ultimo Cronenberg, il non-americano che da sempre rilegge Hollywood, ma il cui genio appare ormai appassito, in particolare per quanto riguarda le Eastern Promises che affogano nel gioco di convenzioni che oggi vengono solamente subite, quando un tempo venivano destabilizzate, ormai utili solo per nascondere quelle che si definiscono ossessioni, o tematiche ricorrenti, ma senza l’humus fertile necessario per lasciarle proliferare in quanto visioni: di un mondo e di un cinema che siano ’altro’ e non altrui.

Piuttosto, inaspettata è giunta la meraviglia destata dall’esordio di una star californiana, un Ben Affleck che si è affidato al romanzo La casa buia di Dennis Lehane, ovvero lo scrittore osannato in America e autore de La morte non dimentica: Mystic River da cui Clint Eastwood ha tratto una delle sue opere più toccanti e fondamentali. E proprio dal grande vecchio, la giovane speranza sembra aver tratto idee che accomunano regia cinematografia e sguardo sul mondo attraverso un certo classicismo pieno di mestizia, dove uno stile parco e pudico descrive una lenta e inesorabile decadenza, come quando si voglia seguire il percorso di un fiume, per poi accorgersi che si sta correndo il rischio di affogare nel mare. Un mare che anche stavolta si chiama ’Boston’, in Gone Baby Gone racchiusa tutta nel malfamato quartiere di Dorchester e nella fauna umana che lo abita. Un ambiente che è ben conosciuto dalla giovane coppia di investigatori Patrick Kenzie (Casey Affleck) e Angie Gennaro (Michelle Monaghan, il cui dolce volto ricorda assai Marcia Gay Harden, la Celeste Boyle di Mystic River), cui verrà affidato il caso scottante della scomparsa di una bambina di quattro anni, Amanda McCready, figlia di Helene (Amy Ryan), ragazza madre che annega nell’inutilità del vivere periferico, persa tra alcol droga e varie altre impossibilità, prima fra tutte quella di essere una guida responsabile per la sua piccola. Piena di preoccupazione, un’altra coppia, quella composta da Beatrice (Amy Madigan) e Lionel (Titus Welliver), ossia gli zii della bimba, aggirerà la potestà matriarcale e affiderà il caso ai due. Giovani e forse insicuri, forse inesperti – perché trent’anni, se pochi non sono, di certo potrebbero non essere abbastanza – soprattutto quando sarà loro fatto notare da gente navigata, come gli anziani poliziotti Remy Broussard (Ed Harris) e Jack Doyle (Morgan Freeman), collaboratori restii.

Come in Mystic River, anche in Gone Baby Gone è posta grande attenzione sull’infanzia negata in un mondo violento che sembra voler fagocitare qualsiasi emozione, ma dove, nonostante tutto le emozioni premono da ogni lato per continuare a essere vive: come in un melodramma. Un melodramma raggelato, però, eppure mai gelido: perché di Vita e di vite si parla, attraverso la lentezza che della vita è propria, esistenza che lentamente cerca di sfuggire al proprio Destino, malgrado l’inesorabile tangibilità della sconfitta, o di qualcos’altro che molto le somiglia e che si prospetta alla fine del cammino.
E quasi inusitato appare l’utilizzo di un cast in stato di grazia, grazie anche all’uso intelligente ed equilibrato che se ne è fatto: perché i giovani protagonisti appaiono come deboli e dimessi, mentre il contorno è forte, uno sfondo duro e aggressivo, ’Brutto Sporco e Cattivo’, quasi a voler sintetizzare ciò che Dorchester significa, piccola porzione di un mondo ovunque uguale a se stesso. Ed è lo sfondo, il contesto, a premere sugli individui perché compiano delle scelte, forse perché possano essi stessi divenire come chiunque altro: e i trent’anni sono l’età giusta per le scelte, quelle che aprono profondi dilemmi morali, quelle che decideranno cosa si sarà per il resto dei propri giorni, ultimo scoglio prima di crescere definitivamente, per non essere più deboli, ma pagandone le conseguenze. Però la grandezza dell’occhio che ci mostra Gone Baby Gone risiede nel non prendere posizioni, perché ciò che si vuol sottolineare è l’ineluttabilità del tutto: una scelta tra le tante possibili, più che altro un caso della propria coscienza; una forte dose di realismo, soprattutto, che si assomma a volti corpi costumi e scenografie, dove tutto concorre a creare quel Bello che abitualmente si definisce come ’spazzatura’.
In questo modo la storia assume i contorni del respiro ampio, il cui ritmo solenne conduce lo spettatore per mano, fino a che questi si accorgerà che la tripartizione della sceneggiatura, genialmente squilibrata nelle sue sezioni, potrebbe fargli perdere le coordinate sensoriali e morali, fino anche a mozzargli il respiro, a stento trattenuto nel corpo che abitualmente lo contiene, pronto per essere liberato assieme ai demoni che lo tormentano. Perché Gone Baby Gone è un Noir, pieno di tensioni e doppi giochi che scorrono sotterranei, come i rivoli che con sé portano solo melma, quella che potrebbe ben colorare ciò che aprioristicamente definiremmo come il ’Bene’. Si può ora ben capire come le regole del Genere, tra cui principalmente i colpi di scena e l’accumulo di situazioni nel finale, in questo caso non siano di alcun ostacolo all’inusuale profondità delle psicologie e delle loro sensibilità.
Così come il discorso sulla presenza invasiva della televisione risulta tutt’altro che stucchevole: perché la scatola magica viene sì descritta come un malefico artificio che nulla sa raccontare, nulla sa descrivere, impotente come sempre a mettere a fuoco la Realtà, tanto che sembrerebbe quasi che preferirebbe darle fuoco, per renderla tutta uguale e più facilmente assimilabile, potendo contare di raccoglierne le ceneri, un giorno, in tutta semplicità. Televisione che significa ripiegamento dell’audiovisivo in una futile e rituale solennità che di mediocrità vive, apatia dalla quale sfuggire, in contrasto con un Cinema minimalista che sforna un capolavoro che, per colpire il suo obbiettivo, ha bisogno solamente di un paio di sagaci battute e di qualche inquadratura giusta: un piccolo monitor in un interno proletario, sullo sfondo, che per leggerlo costringe lo sguardo a rendersi miope; e uno schermo grande, in un epilogo amaro, sul quale guardare immagini gioiose grazie alle quali sorridere. Ma non da soli.


CAST & CREDITS

(id.); Regia: Ben Affleck; soggetto: tratto dal romanzo La casa buia di Dennis Lehane; sceneggiatura: Ben Affleck e Aaron Stockard; fotografia: John Toll; montaggio: William Goldenberg; musica: Harry Gregson-Williams; interpreti: Casey Affleck (Patrick Kenzie), Michelle Monaghan (Angela ’Angie’ Gennaro), Ed Harris (Detective Remy Broussard), Amy Ryan (Helene McCready), Morgan Freeman (Capitano Jack Doyle), John Ashton (Detective Nick Poole), Amy Madigan (Beatrice ’Bea’ McCready), Titus Welliver (Lionel McCready); produzione: LivePlanet, Miramax Films, The Ladd Company; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures Italia; origine: U.S.A. 2007; durata: 114’; web info: sito ufficiale.


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